Sarebbe bello dire che Umberto Eco (Alessandria, 5 gennaio 1932 – Milano, 19 febbraio 2016) si sbagliava, sarebbe come dare un po’ di speranza sul futuro di una società che ha smesso di essere popolo e ha ormai assunto la forma di uno sciame, una massa informe. Sarebbe bello, ma non sarebbe intellettualmente corretto.

Chissà cosa avrebbe detto Umberto Eco quando alla sua morte iniziò a diffondersi capillarmente nella rete quella che doveva essere una sua citazione:

Chi non legge, a 70 anni avrà vissuto una sola vita: la propria. Chi legge avrà vissuto 5000 anni: c’era quando Caino uccise Abele, quando Renzo sposò Lucia, quando Leopardi ammirava l’infinito… perché la lettura è un’immortalità all’indietro.

Le abbiamo lette ovunque accompagnate dal suo volto, eppure non sono parole sue. Umberto Eco questo concetto l’ha espresso diversamente, e molto meglio, in La bustina di Minerva, l’ultima pagina che curava per L’espresso:

Non ce ne rendiamo conto, ma la nostra ricchezza rispetto all’analfabeta (o di chi, alfabeta, non legge) è che lui sta vivendo e vivrà solo la sua vita e noi ne abbiamo vissuto moltissime. Ricordiamo, insieme ai nostri giochi d’infanzia, quelli di Proust, abbiamo spasimato per il nostro amore ma anche per quello di Piramo e Tisbe, abbiamo assimilato qualcosa della saggezza di Solone, abbiamo rabbrividito per certe notti di vento a Sant’Elena e ci ripetiamo, insieme alla fiaba che ci ha raccontato la nonna, quella che aveva raccontato Sherazade.

Chiunque abbia letto Il nome della rosa, il best seller uscito nel 1980, ha sicuramente presente la quantità di citazioni e riferimenti puntuali con cui Eco ha riempito il romanzo, perché in quanto intellettuale era suo compito pretendere una correttezza metodologica anche all’interno di un prodotto creato per la massa.

Non gli farebbe piacere sapere che qualcuno gli ha messo in bocca parole che non ha mai detto, ma non ne sarebbe sorpreso. Nella citazione originale si percepisce il suo biasimo nei confronti di coloro che non leggono, un biasimo che è espresso senza mezze misure in quest’altra citazione, tratta da Quanti libri non abbiamo letto?:

Si può essere colti sia avendo letto dieci libri che dieci volte lo stesso libro. Dovrebbero preoccuparsi solo coloro che di libri non ne leggono mai. Ma proprio per questa ragione essi sono gli unici che non avranno mai preoccupazioni di questo genere.

La sua opinione sul fenomeno degli analfabeti funzionali e le sue critiche verso le «legioni di imbecilli» sono state percepite come offensive da coloro che si sono sentiti presi in causa. Il messaggio era chiaro, la comunicazione era riuscita perfettamente.

Umberto Eco è stato il maggiore esperto di comunicazione in Italia, colui che ha capito l’importanza di quest’azione che si svolge quotidianamente con mezzi diversi, che siano orali o scritti. È stato lui a fondare il corso di Scienze della Comunicazione negli anni Ottanta e ancora prima, nel 1971, il DAMS dell’Università di Bologna, e a tenere corsi dedicati alla comunicazione in svariate università in Italia e all’estero.

Di fronte al suo prestigio dovremmo fare un passo indietro e dare ascolto alle sue parole, alle sue raccomandazioni, perché «di qualsiasi cosa i mass media si stanno occupando oggi, l’università se ne è occupata venti anni fa e quello di cui si occupa oggi l’università sarà riportato dai mass media tra vent’anni».

Prima di internet e dei social per parlare, o scrivere, ad un grande numero di persone bisognava prima averne acquisito il diritto. Ora è come se chiunque potesse salire su un palco di fronte a un pubblico potenzialmente illimitato, dire quello che vuole senza assumersene le responsabilità, essere acclamato o criticato, e tornare alla sua vita.

Quello che dice potrebbe essere – e spesso lo è – una falsità, ma la maggior parte della massa, disabituata a un atteggiamento critico verso ciò che sente, gli crederebbe e contribuirebbe a diffonderla. Gli esempi sono sotto i nostri occhi ogni giorno.

Umberto Eco, esperto della cultura di massa e dei mass media, è stato tra i primi ad avvisarci di questo pericolo e non solo. Nel libro Il fascismo eterno, edito dalla Nave di Teseo nel gennaio 2018 (precedentemente era uscito nel 1997 col titolo Cinque scritti morali), è contenuta una lezione che Eco tenne nel 1995 alla New York Review of Books, nella quale individuava una correlazione tra dittatura e cultura di massa.

Le caratteristiche ricorrenti sono il culto dell’azione per l’azione, il disaccordo come tradimento, la paura delle differenze, l’appello alle classi medie frustrate, il populismo qualitativo e altre ancora, tutte forme smascherate nel loro riprodursi da sempre.

Non penso sia un caso che questo libro sia stato riproposto in Francia durante le scorse elezioni e adesso in Italia, in un periodo storico in cui, tra accuse di esagerazione e dubbi, si sta assistendo alla ricomparsa di fatti dalle sembianze storicamente note.