Categoria: Cultura

  • La parola equilibrio

    La parola equilibrio


    di DANIELE MENCARELLI
    1 maggio 2022

    L’equilibrio di ieri non mi basta.
    Non può bastarmi. A me come a chiunque
    altro.
    Mi cerco nelle cose che vivo e incontro, in
    quello che faccio, quotidianamente provo a
    trovare il mio punto di galleggiamento.
    Forse, piuttosto che di equilibrio, sarebbe
    più giusto parlare del suo fratello detestato
    e reietto. Lo squilibrio.
    Forse di nessuno dei due.
    Allora perché tutti mi vogliono equilibrato?
    Perché devo a tutti i costi obbedire a quel
    canone sempre più rigido che impone agli
    individui quanto e come vivere? E soffrire?
    E se non mi adeguo al vostro metro, se la
    vita mi sembra ben più scandalosa di quel
    che andate raccontando, perché parlare di
    malattia?
    Di malattia mentale?
    Allora curatemi. Ma le vostre cure non
    guariscono. Lo sapete per primi voi.
    Possono nella migliore delle ipotesi
    sbloccare l’ingranaggio, rimetterlo in moto.
    Ma la vertigine resta. Il dolore resta.
    Ma non è, forse, giusto così?
    Non è che per caso ci stiamo raccontando
    la storia sbagliata? L’idea di un uomo senza
    umanità? Senza ferite?
    Cosa volete da me?
    Mi volete equilibrato, e normale, e
    perfettamente inserito in quello che avete
    pensato e creato per me.
    Non per il mio bene. In verità, voi non mi
    avete a cuore.
    Voi avete a cuore quello che io devo fare,
    quello che avete previsto per me e per tutti
    quelli come me. Obbedire al programma,
    essere parte di qualcosa che avete costruito
    per tutti, ma che è vostro, che non vuole il
    benessere di alcuno, a parte voi.
    Voi mi volete produttivo, in forma,
    qualificato e competitivo.
    Disposto a spendere l’intera esistenza dietro
    il vostro progetto di società grattacielo,
    dove la luce tocca solo ai vincitori.
    Voi mi volete dedito al consumo, pronto a
    ogni sacrificio per l’acquisto di quello che gli
    altri, malgrado tutti i sacrifici, non riescono
    a comprare.
    Invece no.
    Perché il mio squilibrio ha voce più alta e
    imperiosa della vostra.
    È equilibrio dentro la terra tremante del
    mio cuore.
    È libertà.
    E vi terrorizza

  • Quali sono i Paesi culturalmente più influenti?

    Quali sono i Paesi culturalmente più influenti?

    I ricercatori della rivista CEOWORLD hanno analizzato e confrontato 165 paesi in base a 9 parametri: architetturapatrimonio artisticomodacibomusicaletteraturastoriaattrazioni culturali e accessibilità culturale.

    • 1. 🇮🇹 Italia – punteggio: 95.99 (rapporto CeoWord 2021).
    • 2. 🇬🇷 Grecia – punteggio: 95.61.
    • 3. 🇪🇸 Spagna – punteggio: 95.23.
    • 4. 🇮🇳 India – punteggio: 95.23.
    • 5. 🇹🇭 Thailandia – punteggio: 93.67.
    • 6. 🇵🇹 Portogallo – punteggio: 93.67.
    • 7. 🇯🇵 Giappone – punteggio: 92.84.
    • 8. 🇬🇧 Gran Bretagna – punteggio: 92.79.
    • 9. 🇨🇳 Cina – punteggio: 92.79.
    • 10. 🇩🇪 Germania – punteggio: 92.73. 
  • Il dibattito scientifico sul cambiamento climatico è finito.

    Il dibattito scientifico sul cambiamento climatico è finito.

    Il negazionismo climatico è un fenomeno documentato da decine di libri, studi e inchieste giornalistiche. È un fenomeno reale, storico e organizzato. Qualsiasi siano le ragioni che spingono ad abbracciarlo – convinzioni personali, interesse economico, ideologia politica o una combinazione di questi elementi – il negazionismo si regge sulla produzione e sulla diffusione di disinformazione. Questa disinformazione riesce a raggiungere l’opinione pubblica anche attraverso la voce di quelli che possiamo definire “falsi esperti”, o “pseudoesperti”.

    Lo abbiamo visto anche nelle ultime settimane: sui media compaiono persone che parlano di cambiamento climatico con il cappello di esperti, anche quando non hanno un’effettiva competenza in materia. Di recente è intervenuto su La7 Franco Prodi, fisico dell’atmosfera che non si è occupato del cambiamento climatico durante la sua carriera. Questi “scettici” (se proprio non vogliamo chiamarli negazionisti) rilasciano interviste, organizzano convegni, fanno circolare petizioni. Nella quasi totalità dei casi non hanno mai pubblicato nulla di rilevante, riguardo al cambiamento climatico, su riviste scientifiche a revisione paritaria. Le loro tesi si scontrano con ciò che afferma la comunità scientifica.

    Il negazionismo sfrutta diverse tecniche e argomentazioni. Ma c’è una costante nel suo modus operandi: prendere di mira il consenso scientifico e la sua stessa legittimità. La presenza di pseudoesperti sui media, che si rivolgono direttamente al pubblico, suscita l’impressione ingannevole che il dibattito, nella scienza, sia ancora aperto.

    Il consenso scientifico è una caratteristica centrale della scienza moderna. A partire dal XIX secolo, la scienza è diventata sempre di più un’impresa collettiva, che coinvolge migliaia di scienziati a livello globale. In questo lavoro comunitario di costruzione della conoscenza, alcuni danno un contributo più importante di altri e il loro nome viene associato a una tappa significativa nella storia di una disciplina.

    Alcune ricerche hanno dimostrato che il consenso scientifico agisce come un gateway belief, cioè come una sorta di cancello cognitivo attraverso cui passa la formazione delle opinioni. Comunicare correttamente il consenso scientifico sul cambiamento climatico migliora la comprensione del tema. Per non farsi ingannare dalla disinformazione e per capire come la scienza funziona e avanza lungo la tortuosa strada della conoscenza, è perciò indispensabile acquisire familiarità con il concetto di consenso scientifico.

    Innanzitutto, non dobbiamo pensare a questo consenso come a una decisione formale che gli scienziati prendono in un preciso istante, magari con un voto a maggioranza. Il consenso emerge nell’arco di anni di ricerche, da studi pubblicati in modo indipendente da molte persone. La formazione di un consenso è perciò un processo spontaneo, che avviene grazie a un’opera corale di accumulo di evidenze e di conoscenze. Quando il consenso si è formato gli scienziati possono prendere atto della sua esistenza, attraverso dichiarazioni personali e le posizioni espresse da società e organizzazioni scientifiche. Possiamo misurare con una certa accuratezza il consenso scientifico? Sì, è possibile. È ciò che è stato fatto sul cambiamento climatico.

    In uno studio pubblicato nel 2004 sulla rivista Science, la storica della scienza Naomi Oreskes ha raccolto le sintesi di 928 articoli scientifici pubblicati tra il 1993 e il 2003. Nessuno di questi rifiutava la posizione secondo cui é in atto un riscaldamento globale causato dalle attività umane. Il 75% era d’accordo con questa posizione e il 25% non si esprimeva. Nel 2013 John Cook e altri autori hanno analizzato gli abstract di 11944 articoli pubblicati tra il 1991 e il 2011. Degli articoli che esplicitavano la posizione sul riscaldamento antropico, il 97,1% riconosceva la sua esistenza. Inoltre, gli autori hanno invitato gli scienziati a valutare i propri stessi articoli. Tra quelli che avevano risposto, il 97,2% dichiarava di aderire a questa posizione.

    Un articolo pubblicato nel 2016 ha presentato una sintesi degli studi svolti dal 1991 al 2015: dodici studi pubblicati e due sondaggi realizzati da due organizzazioni. La conclusione degli autori è stata che il consenso scientifico sul cambiamento climatico si può collocare attorno al 97%. Gli autori osservavano che, a seconda della metodologia, il consenso oscillava tra il 90% e il 100%. La discrepanza tra le percentuali derivava, principalmente, da differenze nella selezione del database di esperti; dall’esatta definizione della posizione su cui valutare il consenso; da differenze nel trattamento delle risposte che non esprimevano apertamente una posizione. Un aspetto importante era quello che riguarda la specifica competenza degli scienziati. «Maggiore è l’esperienza in campo climatico degli scienziati esaminati, maggiore è il consenso sul riscaldamento globale causato dall’uomo», scrivono gli autori.

    Il consenso scientifico sul cambiamento climatico aumenta con il livello di competenza (ogni sigla indica uno studio diverso). Da: John Cook et al., Consensus on consensus: a synthesis of consensus estimates on human-caused global warming.

    Due nuove ricerche sono state pubblicate nel 2021. Quella di Mark Lynas e colleghi ha applicato la metodologia dello studio del 2013 a un dabatase di articoli pubblicati tra il 2012 e il 2020, trovando una percentuale di consenso attorno al 99,6%. Se si considera che gli articoli valutati sono stati pubblicati in anni più recenti rispetto a quelli compresi nello studio del 2013, il fatto che la percentuale cresca, anche se da a un valore già molto alto, è coerente con un consenso che si rafforza nel tempo. All’interno di un database di 88125 pubblicazioni, Lynas e colleghi hanno trovato 28 articoli che hanno potuto classificare come “scettici”. Tra gli autori di cinque di questi articoli compare il nome di Nicola Scafetta. Docente di fisica dell’atmosfera all’Università di Napoli, Scafetta è uno dei bastian contrari climatici italiani che, per il suo ruolo accademico, dovrebbe avere, almeno sulla carta, le competenze per occuparsi di cambiamento climatico. Le sue ricerche hanno però un unico obiettivo: dimostrare che il riscaldamento globale non è causato dalle attività umane.

    Scafetta è convinto che l’aumento della temperatura sia da imputare alle variazioni dell’attività solare e a cicli astronomici. Riguardo alla prima, non c’è nessuna evidenza che l’attività solare sia in qualche modo legata all’attuale riscaldamento globale. L’aumento della temperatura mostra di non sovrapporsi affatto a possibili fattori naturali, come il Sole, ma soltanto all’andamento delle emissioni antropiche. Quanto ai cicli astronomici, sappiamo che le periodiche variazioni dei parametri dell’asse terrestre (i cicli di Milankovitch) producono effetti sul clima, attraverso l’innesco dell’inizio e del termine di periodi glaciali, ma su scale temporali di decine e centinaia di migliaia di anni. Tuttavia Scafetta parla anche di altri cicli, proclama di aver scoperto cicli di “5, 9, 11, 20, 60, 115, 1000 anni”, afferma che «oscillando, il Sole causa cicli equivalenti nel sistema climatico. Anche la Luna agisce su di esso con le proprie armoniche». Gli esperti del sito Climalteranti, nel confutare queste supposizioni, e gli innumerevoli errori su cui si fondano, parlano di «irresponsabile e ostinata ciclomania». Tale ciclomania gli consente di essere intervistato, ciclicamente, su quotidiani che hanno un interesse ideologico a proporre ai propri lettori questo genere di tesi. Scafetta è uno dei firmatari italiani della petizione, circolata nel 2019, che asseriva l’inesistenza della crisi climatica, sulla base di vecchie argomentazioni, tanto ripetitive quanto inconsistenti, come la “CO2 fa bene alle piante”.

    Potremmo chiederci: se una ricerca è così scadente e se una tesi è così priva di fondamento, come è possibile che possano finire, anche se in rari casi, su riviste specialistiche? La pubblicazione non conferisce a queste ipotesi una qualche dignità scientifica? La revisione paritaria e la pubblicazione degli studi sono stadi necessari di quel processo di scrutinio attraverso cui la scienza vaglia ipotesi e affermazioni. È ciò che distingue un articolo scientifico da un’intervista rilasciata a un quotidiano. Ma non è un sistema perfetto, né immune da errori. Inoltre, al di là del rigore dei controlli eseguiti dai revisori (non sempre di qualità eccellente) e della qualità delle diverse riviste (che non è sempre pari a quella di riviste come Nature e Science), il singolo articolo non stabilisce, da solo, la posizione della scienza su un tema così vasto come il cambiamento climatico. Il singolo articolo è un tassello di un quadro che si compone di una quantità di studi realizzati da più scienziati: è, appunto, ciò che chiamiamo consenso.

    Nel 2015 un gruppo di ricercatori, tra cui la climatologa Katharine Hayhoe e lo psicologo, esperto di disinformazione, Stephan Lewandowsky, ha passato in rassegna gli errori e le falle presenti in 38 articoli che contestano il riscaldamento globale antropico (compaiono anche articoli di Scafetta). Una caratteristica frequente è l’omissione di informazioni contestuali o di dati che potrebbero smentire le conclusioni. Altre falle, in questi articoli “scettici”, sono l’uso di metodi statistici inappropriati, l’assunzione di premesse scorrette e fallacie logiche come le false dicotomie.

    Il secondo studio sul consenso scientifico apparso nel 2021, di Krista Myers e altri autori, ha replicato una metodologia utilizzata in un lavoro del 2009. Gli autori hanno realizzato un sondaggio tra scienziati specializzati in scienze della Terra. Tra tutti quelli (2548) che hanno risposto alla domanda sulla causa del riscaldamento globale, il 91,1% ha indicato le attività umane. Restringendo il campo agli esperti di scienze climatiche e atmosferiche (153), per i quali è possibile verificare un elevato livello di competenza sul cambiamento climatico (almeno il 50% dei loro studi ha come oggetto questo argomento), il consenso sale al 98,7%. La percentuale tocca il 100% se si considerano gli autori che hanno pubblicato almeno 20 studi sul cambiamento climatico tra il 2015 e il 2019. Questi risultati dimostrano che «la competenza predice il consenso». Come già avevano dimostrato gli studi precedenti, i dati evidenziano che maggiore è la competenza, maggiore è l’accordo sull’esistenza e le cause antropiche del cambiamento climatico.

    Un argomento di discussione tra gli esperti è stato il trattamento da applicare agli articoli scientifici che non dichiarano, apertamente, una posizione sul cambiamento climatico. Nello studio di Cook e colleghi del 2013 questi articoli comprendevano il 66,4% del database. Si deve considerare il fatto che uno stesso scienziato può aver pubblicato articoli in cui talvolta ha manifestato, attraverso qualche affermazione, la propria posizione e altri in cui non lo ha fatto. In altri casi la posizione può essere implicita. Questo non costituisce un’anomalia, lo si riscontra anche in altri settori della scienza. I sismologi e i vulcanologi non esplicitano in ogni loro studio cosa pensano della tettonica a placche, perché questa teoria è ormai da decenni un indiscusso pilastro della geologia. I biologi evoluzionisti non devono ribadire, ad ogni occasione, di essere convinti della correttezza della teoria dell’evoluzione e della selezione naturale, perché l’evoluzione è un caposaldo della biologia contemporanea («nulla in biologia ha senso, se non alla luce dell’evoluzione», affermava il genetista Theodosius Dobzhansky ).

    Come abbiamo visto, la formazione di un consenso è un processo che lascia tracce nella letteratura scientifica. Da essa possiamo anche trarre indicazioni su quale sia stata l’evoluzione del dibattito su una questione. In un articolo intitolato La struttura temporale della formazione del consenso scientifico, i sociologi Uri Shwed e Peter Bearman si sono chiesti quali traiettorie assumano i dibattiti scientifici e quando una comunità scientifica raggiunge un accordo su un fatto. Quando e come diventiamo certi che il fumo è un fattore di rischio per lo sviluppo del cancro o che le attività umane stanno causando un riscaldamento globale? Per rispondere a queste domande, Schwed e Bearman non hanno svolto sondaggi tra gli scienziati, né hanno valutato il contenuto degli articoli scientifici, ma hanno studiato lo schema delle loro citazioni.

    La base concettuale di partenza è l’immagine della scatola nera, elaborata dal sociologo della scienza Bruno Latour: quando un fatto scientifico si consolida i suoi elementi costitutivi interni vengono nascosti; quando un fatto è ancora in fase di costruzione i suoi elementi interni sono visibili. Come un computer che, una volta assemblato e funzionante, non deve più essere smontato (a meno di un malfunzionamento) e l’insieme dei suoi componenti interni rimane nascosto alla vista, così un’affermazione scientifica, come il fumo causa il cancro, si costruisce nel tempo all’interno di un network fatto di persone, di studi e anche di elementi esterni alla comunità scientifica (si pensi a tutto ciò che ruota attorno alle politiche sanitarie di prevenzione).

    Se si analizza la rete di citazioni tra gli autori e gli articoli di una comunità scientifica, si riconosce una struttura che indica il grado di divisione all’interno della letteratura. Una comunità è una rete, un sottoinsieme di una popolazione più ampia, in cui i legami interni sono prevalenti rispetto ai legami con altri sottoinsiemi. «Possiamo osservare il black-boxing nelle reti di citazioni o, più precisamente, nelle rappresentazioni di articoli scientifici collegati da citazioni». Quando diverse fazioni dibattono su una questione scientifica, creano regioni distinte all’interno della rete. Gli elementi interni sono visibili, perché il fatto scientifico si sta costruendo.

    Schwed e Bearman hanno applicato questa teoria non solo alla letteratura sul cambiamento climatico, ma anche a quella in altri campi, come il rapporto tra cancro e fumo, e a temi su cui non c’è stato alcun reale dibattito scientifico, come il link tra vaccini e autismo (un’ipotesi mai provata – frutto di una frode – che la comunità scientifica ha prontamente smentito). In quest’ultimo caso la discussione segue una traiettoria piatta: il tema non è mai diventato scientificamente controverso. Nel caso del rapporto tra fumo e cancro, il dibattito scientifico percorre, per buona parte del suo arco temporale, una traiettoria ciclica. Dopo che, in seguito alla pubblicazione di alcuni importanti studi e rapporti, un primo consenso sulla cancerogenicità del fumo si formò tra la fine degli anni ’50 e l’inizio dei ’60, la questione è stata in seguito riaperta in termini diversi, come quando si è iniziato a discutere sulla possibilità di fabbricare sigarette più sicure e sul ruolo della nicotina. Questo, secondo Schwed e Bearman, si deve anche all’influenza che l’industria del tabacco è riuscita a esercitare sulla ricerca.

    La formazione del consenso scientifico sul cambiamento climatico si sviluppa lungo un terzo tipo di traiettoria, detto “a spirale”: a un iniziale dibattito segue una rapida risoluzione della questione e una spirale di nuove domande verso le quali gli scienziati si orientano. L’esistenza del riscaldamento globale e le sue cause antropiche non sono più dibattute, ma a valle di questo consenso continua una discussione su altri aspetti della questione. Schwed e Bearman hanno preso in esame 9423 articoli scientifici sul clima pubblicati tra il 1975 e il 2008, trovando che all’inizio degli anni ’90 il consenso scientifico si era ormai consolidato.

    Questo consenso può essere ribaltato? In linea di principio sì, se nuove e convincenti evidenze si fanno largo. Ma il livello di consenso ci dice anche qual è lo stato della discussione nella comunità scientifica. È una misura dell’eventuale dissenso al suo interno e quindi, indirettamente, della plausibilità di ipotesi alternative, messe alla prova dello scrutinio della comunità scientifica. Se il consenso sul cambiamento climatico antropico sfiora il 100%, ciò significa che tra gli scienziati più competenti non c’è alcun dibattito sulla sua realtà.

    Naomi Oreskes afferma che «la maggior parte delle persone pensa che la scienza sia affidabile in virtù del suo metodo: il metodo scientifico». Ma non esiste un singolo metodo scientifico, ci sono molti metodi scientifici. Ciò che, in verità, rende affidabili le affermazioni scientifiche è, secondo Oreskes, «il processo mediante il quale vengono controllate. Le affermazioni scientifiche sono soggette a controlli e solo le affermazioni che li superano possiamo dire che costituiscano conoscenza scientifica».

    Nel caso del cambiamento climatico questo processo di controllo scientifico è giunto da tempo al termine. La scienza oggi è certa che il riscaldamento globale è causato dalle emissioni prodotte dalle attività umane (in primo luogo, i combustibili fossili), tanto quanto è certa che il fumo è cancerogeno. Chiunque è libero di credere che gli “scettici” abbiano ragione e che la comunità scientifica abbia torto. Le opinioni personali sono libere. Quello che non si può fare è affermare che la comunità scientifica sia divisa o che gli scienziati non siano ancora sicuri delle cause del riscaldamento globale. Perché queste, come dimostrano gli studi, sono affermazioni false.

    https://www.valigiablu.it/consenso-scienza-cosa-dice-cambiamento-climatico/

  • Eco – chi odia l’italia

    Eco – chi odia l’italia

    l’Italia è odiata in tutto il mondo?

    New York. Erano gli anni ottanta.

    Umberto Eco salì su un taxi e l’autista notò che portava con sé dei giornali italiani e, quindi, gli chiese per averne certezza: <<Mi scusi, signore! Ma lei è italiano?>>.

    Eco rispose: <<Si, lo sono!>>.

    Mentre continuava a guidare il tassista gli disse: << Senta le volevo chiedere una cosa. A voi italiani, nel mondo, chi vi odia?>>.

    Eco: <<Come, scusi?>>

    Il tassista esclamò: <<Ma sì dai! Tutti i popoli vengono odiati da qualche altro popolo. A noi americani ci odiano tantissime persone come i russi o i palestinesi, e potrei stare qui ad elencarne altri per un quarto d’ora. Quindi, a voi italiani chi vi odia?>>.

    Eco sorpreso per questa domanda si limitò a dire: <<Ma guardi, nessuno ci odia!>>.

    Il tassista ci rimase quasi male di questa risposta e dopo un po’ gli chiese: << Scusi, ancora signore. Ma se a voi italiani non vi odia nessuno, invece, voi chi odiate? Perché tutti i popoli odiano un altro popolo. Gli americani odiano: i messicani, i cubani o i nativi, per esempio. E molti altri. Voi, invece, chi odiate?>>.

    Eco ci pensò e disse: <<Nessuno! Non odiamo nessuno sul piano internazionale.>>

    Il tassista ci rimase nuovamente male di questa risposta.

    Umberto scese dall’auto e mentre camminava per le strade della città pensò che in realtà c’era una risposta ad entrambe le domande. Gli sarebbe piaciuto rincorrere quell’uomo, bussare nel finestrino, per dirgli: <<Mi scusi. Vorrei rettificare. Le ho detto che noi italiani non odiamo e non siamo odiati da nessuno, ma avrei dovuto aggiungere che per compensare siamo formidabili ad odiarci a vicenda. Internamente. Su questo non ci batte nessuno.>>.

    Noi italiani odiamo tantissimo noi stessi. Il nostro stesso paese. Forse lo amiamo, da un canto, ma dall’altro lo odiamo più di qualunque altro.

  • Forse il tempo del sangue

    Forse il tempo del sangue

    Forse il tempo del sangue

    Forse il tempo del sangue ritornerà.
    Uomini ci sono che debbono essere uccisi.
    Padri che debbono essere derisi.
    Luoghi da profanare bestemmie da proferire
    incendi da fissare delitti da benedire.
    Ma più c’è da tornare ad un’altra pazienza
    alla feroce scienza degli oggetti alla coerenza
    nei dilemmi che abbiamo creduto oltrepassare.
    Al partito che bisogna prendere e fare.
    Cercare i nostri eguali osare riconoscerli
    lasciare che ci giudichino guidarli essere guidati
    con loro volere il bene fare con loro il male
    e il bene la realtà servire negare mutare.

    Franco Fortini

  • NEGLI ANNI ’70 L’ESPERIMENTO “UNIVERSO 25” HA MOSTRATO CHE LA NOSTRA SOCIETÀ È DESTINATA AL COLLASSO

    NEGLI ANNI ’70 L’ESPERIMENTO “UNIVERSO 25” HA MOSTRATO CHE LA NOSTRA SOCIETÀ È DESTINATA AL COLLASSO

    Dal Diciottesimo secolo l’uomo si chiede fino a quanto potremo crescere come numero di abitanti sulla Terra. Se nel Settecento gli esseri umani sul Pianeta erano 700 milioni, i progressi tecnologici e una migliore qualità della vita hanno sostenuto una crescita demografica esponenziale a partire dal secolo successivo, per poi arrivare all’esplosione nel Novecento e ai 7 miliardi e 900 milioni di abitanti attuali. Tra le principali teorie legate al tema della sovrappopolazione, sin dall’Ottocento hanno avuto risalto quelle malthusiane, coniate dall’economista e filosofo Robert Malthus, secondo cui avremmo rischiato l’estinzione per una carenza di risorse dovuta alla crescita esponenziale della popolazione.

    Malthus ragionava per progressioni aritmetiche, con un approccio poi molto contestato. Ralph Waldo Emerson rispose alla sua teoria scrivendo che “Malthus, affermando che le bocche si moltiplicano geometricamente e il cibo solo aritmeticamente, dimenticò che la mente umana era anch’essa un fattore nell’economia politica”. Nel Novecento il dibattito si amplificò, e molti scienziati iniziarono a pensare che non era soltanto l’equilibrio matematico tra risorse e numero di abitanti il fattore determinante per un eventuale collasso della specie umana. Bisognava aggiungere altre componenti, e la principale tra queste era il comportamento dei singoli individui all’interno della società.

    L’etologo John Calhoun, nella seconda metà del Novecento, mise in atto degli esperimenti per dimostrare come non fossero le risorse limitate il pericolo maggiore per una società, ma quelle dinamiche sociali che riunì sotto il termine fogna del comportamento. Arrivò a questa conclusione dopo decenni di esperimenti sui roditori. Nel 1947 iniziò uno studio su una colonia di topi norvegesi inseriti in un recinto, accorgendosi che la popolazione non raggiungeva il numero previsto. Incuriosito da questo freno demografico, passò gli anni successivi ad ampliare i suoi studi per capire i meccanismi del blocco delle nascite. Nel 1962 condusse un altro studio comportamentale, stavolta usando dei ratti grigi, e notò lo stesso fenomeno dell’esperimento del 1947. Capì che per arrivare a comprendere scientificamente ogni passaggio dello studio avrebbe dovuto ricreare una vera e propria società dei topi, l’utopia perfetta. Nacque così l’Universo 25.

    John Calhoun, 1971

    Nel 1968, nel Maryland, Calhoun costruì l’habitat ideale per quattro coppie di topi. Risorse illimitate per l’alimentazione, temperatura ideale intorno ai venti gradi, nessuna interazione con i pericoli esterni, pulizia frequente dell’ambiente, uno spazio sufficiente per ospitare fino a 3.800 topi. Vennero scelti inoltre gli esemplari più sani forniti dal National Institute of Mental Health, inseriti in un recinto con cunicoli, zone separate per nidificare e distributori d’acqua continuamente in azione. Come previsto, i topi iniziarono a riprodursi, con un raddoppio della popolazione ogni 55 giorni. Sembrava il loro Eden, arrivarono a 600 esemplari in meno di un anno e tutto continuò a filare liscio. 

    Il primo problema riguardò la creazione di ruoli sociali all’interno della colonia di roditori. Una volta raggiunto un ampio numero di esemplari, non avvenne un ricambio generazionale, ma si venne a creare a tutti gli effetti una struttura gerarchica dove ogni topo difendeva il suo status, a costo di attaccare i propri stessi figli. Le femmine furono costrette a rintanarsi nelle zone separate per proteggere la prole, ma questo non bastò di fronte all’aggressività dei “maschi alfa”. Si arrivò a episodi di cannibalismo, e la mortalità dei cuccioli raggiunse il 96%. L’esasperata interazione sociale portò alla violenza per mantenere un ruolo di rilievo. Le femmine si nascondevano nei giacigli più alti per non essere raggiunte dai maschi, frenando drasticamente la riproduzione. Si arrivò dunque al pansessualismo, oltre che a una battaglia quotidiana in cui la prevaricazione era l’elemento fondante per non essere emarginati dalla società. Chi lo faceva, isolandosi dal gruppo e rinunciando a combattere, rientrava tra gli esemplari che Calhoun rinominò “i belli”, poiché il loro pelo non era lacerato dai combattimenti e l’alienazione li aveva preservati dalle ferite. I “belli” erano però ai margini della società, passando le giornate esclusivamente a nutrirsi in solitudine.

    Il numero massimo di esemplari non raggiunse i 3.800 ipotizzati da Calhoun, ma si fermò a 2.200. Intorno al seicentesimo giorno dall’inizio dell’esperimento il numero iniziò a calare drasticamente. Le gravidanze continuarono a ridursi di numero, con i piccoli che morivano alla nascita, e nonostante tutti i confort e le risorse illimitate a disposizione, la società dell’Universo 25 finì per collassare. Si arrivò all’estinzione per l’incapacità di mantenere un equilibrio sociale. Fu quella che Calhoun definì “la prima morte”, quella sociale, che precedeva la seconda, quella fisica. L’ultimo topo morì nel 1973, cinque anni dopo l’inizio dell’esperimento.

    Nello stesso anno Calhoun scrisse le tesi del suo esperimento in una pubblicazione dal titolo Death squared: the explosive growth and demise of a mouse population. L’etologo parla dell’Universo 25, ma in realtà lancia un monito alla specie umana. In un passaggio scrive: “Non importa quanto sofisticato l’uomo creda di essere, una volta che il numero di individui in grado di ricoprire un ruolo sociale supera largamente il numero di ruoli disponibili, la conseguenza è la distruzione dell’organizzazione sociale”. Parla inoltre della fogna del comportamento spiegando come le risorse illimitate siano state in realtà un’aggravante per le lotte interne, potendosi concentrare soltanto sull’interazione e non sulla sopravvivenza. Negli anni successivi, gli studi di Calhoun sono stati ripresi non per spiegare il comportamento degli animali, ma per fare un parallelismo con la nostra società.

    A mezzo secolo di distanza, l’Universo 25 richiama per certi aspetti il mondo in cui stiamo vivendo. La lotta per un posto nella società si è inasprita con la diminuzione dei ruoli da occupare, come dimostrano i tassi di disoccupazione giovanile in molti Paesi del mondo. Anche l’illusione delle risorse illimitate che per anni ha caratterizzato la filosofia delle nazioni industrializzate non garantisce nessun sollievo ai suoi abitanti, ma alimenta in molti l’istinto di prevaricazione sui propri simili. E, anche in questo caso, si arriva all’isolamento.

    I “belli” di Calhoun che rinunciano alla società possono essere equiparati ai waldgänger del filosofo tedesco Ernst Jünger, che si ritirano nella foresta, o agli hikikomori. Si isolano, abbandonano le interazioni sociali per difesa e per necessità. E non sono spinti da angustie economiche o da carenze di risorse. Le teorie malthusiane stonano con alcuni dati dei giorni nostri. Le nazioni con più risorse e più avanzate tecnologicamente sono anche quelle con il più alto tasso di suicidi. Il continente con il Pil pro capite più basso, ovvero l’Africa, è quello con il tasso di suicidi più basso, mentre l’Europa è al primo posto, trainata dai quei Paesi scandinavi che invece nei World Happiness Report dell’Onu stazionano sempre nelle prime posizioni. 

    Midsommarfest, Svezia

    Oggi viviamo all’interno di un altro Universo 25, quello della pandemia. L’isolamento è forzato, ma ha messo in luce lo stesso istinto a ergersi al di sopra degli altri, con gli ultimi che combattono i penultimi aizzati da chi sta in cima alla gerarchia sociale. Da virus-contro-uomo si è passati a uomo-contro-uomo, e questo non è avvenuto nel momento massimo di difficoltà del primo lockdown, ma quando sono arrivati i vaccini, la letalità è calata con varianti meno aggressive e si è tornati quindi a una competizione sociale con tinte da guerra civile tra discriminazioni, vittimismo e prevaricazione. Per Calhoun abbiamo nel nostro Dna il gene della prima morte, quella sociale. Ne siamo attratti, la cerchiamo inconsciamente. Spesso la raggiungiamo, quasi sempre senza accorgercene.

  • I 4 valori più importanti da trasmettere ai vostri figli

    I 4 valori più importanti da trasmettere ai vostri figli

    È molto importante che i bambini imparino che non sono superiori a niente e a nessuno, che non va bene vantarsi di fronte agli altri di quello che si ha o di come si è.

    I 4 valori più importanti da trasmettere ai vostri figli

    Educare un figlio è uno dei compiti più importanti dell’essere umano. Se siete padri, madri, nonni o professori è fondamentale che vi chiediate quali valori insegnare ai più piccoli.

    Nel nostro spazio vi suggeriamo di prendere in considerazione questi quattro valori.

    1. L’empatia

    Bambina annusa fiore

    Mettersi nei panni degli altri è fondamentale. Questo è il modo migliore perché possano acquisire una conoscenza di sé stessi e degli altri vivendo nel rispetto, con felicità e armonia. Imparare ciò che potrebbe fare del male agli altri o che cosa non bisogna fare per evitare di farne a chi li circonda è, senza dubbio, un valore eccezionale.

    L’empatia permetterà ai bambini di avere veri amici, di rispettare i loro partner nel futuro e di essere felici con loro. Comprendere che gli altri provano paura, felicità, angoscia, timore o vergogna è un modo di migliorare la convivenza.

    2. L’umiltà

    Bambina nel prato

    È molto importante che i bambini imparino che non sono superiori a niente e a nessuno, che non va bene vantarsi di fronte agli altri di quello che si ha o di come si è.

    L’umiltà aiuta ad essere più felici perché ci si abitua ad apprezzare le cose più semplici ed elementari, quelle che in fondo sono le più importanti nella vita.

    Vivere con un atteggiamento umile permetterà ai vostri figli e figlie di avere una visione più reale delle cose e di chi li circonda.

    Per questo evitate sempre di riempirli di regali, non soddisfate tutti i loro desideri, mostrate loro che nella vita tutto richiede uno sforzo e che le cose più piccole, che non hanno prezzo, sono le più importanti.

    Essere umili è un valore indispensabile che non sempre viene trasmesso quando si educano i più piccoli. Perché non provarci?

    3. L’impegno: uno dei valori più importanti

    Creatività bambini

    L’impegno è un valore che i bambini devono sviluppare con il tempo, ma che bisogna inculcare già da piccoli.

    Con questo impareranno a essere sempre più maturi e responsabili. Impegnarsi nelle cose li aiuta a essere migliori man mano che crescono e che maturano.

    Impegnarsi nello studio, in famiglia e con gli amici crea legami e possibilità. Insegnate loro che ci sono cose importanti per cui lottare e sforzarsi, per cui essere responsabili e migliorare. Ad esempio, bisogna far vedere ai figli che le parole hanno un valore e che l’impegno è fondamentale come l’entusiasmo.

    4. Il valore dell’autostima

    Mamma e bambina ballano

    L’autostima è uno dei valori imprescindibili, che bisogna rafforzare nei bambini già dai primi anni. Appoggiateli, elogiateli, congratulatevi per quello che fanno bene e date loro consigli su come correggere ciò che sbagliano.

    Infondete loro coraggio mostrando quanto sono bravi e quanto li amate, spronateli ad avere fiducia in sé stessi, comprendendo che sbagliare non è un male e che con sforzo possono ottenere qualsiasi cosa.

    Una persona che gode di buona autostima è una persona forte, a cui nessuno può far del male, una persona che mantiene l’entusiasmo e che alimenta l’idea di essere felice giorno dopo giorno, perché se lo merita e perché glielo avete insegnato.

    Ricordate che per far sì che questi valori vengano trasmessi dovete essere i primi a dare l’esempio. Siate coerenti, saldi e mantenete sempre l’entusiasmo e l’affetto verso di loro.

  • Eredità bolscevica, ecco perché non regge il paragone dello storico Luciano Canfora

    Eredità bolscevica, ecco perché non regge il paragone dello storico Luciano Canfora

    Luciano Canfora mette talvolta le sue grandi qualità di storico antico al servizio di tesi anche polemicamente molto delineate, e di solito il terreno fertile ed estemporaneo su cui esercita la sua intelligenza è quello della politica. Avviene talvolta che da lui si apprenda, altre volte che stimoli lo spirito critico, sempre buono, dunque, l’effetto. Mi è capitato di leggere un suo articolo sul Corriere della sera, sintesi della Prefazione che ha scritto per un volume di Sergio Romano, un articolo intitolato così: “L’Urss è morta e vive ancora. Nella Russia di oggi rimane incancellabile il marchio della rivoluzione bolscevica”.

    A prima vista questa idea registra una cosa ovvia, essendo evidente che una vicenda lunga e complessa come quella di cui si parla abbia lasciato tracce nelle società e tra i popoli fra i quali è avvenuta, e nella stessa storia del mondo. Ma non coincidendo affatto il testo di Canfora con la filiera dell’ovvio, esso racconta una tesi ben più articolata, ma assai discutibile. E proprio perché sostenuta da un autorevole storico, val la pena parlarne. Marchio incancellabile della Rivoluzione nella Russia di oggi? Vediamo. L’Urss è morta quando la Rivoluzione del 1917 è finita nel nulla, come Rivoluzione che aveva promesso e profetizzato la redenzione dell’umanità -espressione che si trova nelle “Tesi sulla storia” di Walter Benjamin– o, a essere meno ambiziosi, a promuovere il superamento del 1789: questa, Rivoluzione borghese, l’altra Rivoluzione proletaria, dei vinti che non avevano che da liberarsi delle loro catene, una storia che avrebbe visto i vinti della storia vincere sui vincitori di sempre. Oggi la Russia è una democrazia di massa illiberale e dispotica, gli oppositori in carcere, chiusa nei suoi confini culturali e politici. Il “marchio incancellabile” del dispotismo, proprio della rivoluzione bolscevica, resta, certo in tono minore, ma deprivato di ogni aspettativa più o meno salvifica. La Russia non è più quella dello zar, per cui ha ragione Canfora quando afferma che è sbagliato parlare dello “zar Putin”, ma questo fa ancora parte di quella filiera dell’ovvio di cui si è detto.

    Il fatto è che le ambizioni dell’autore sono ben altre. E si rivelano per intero con il paragone -il cuore dell’articolo- tra gli esiti della Rivoluzione francese, 1789, e gli esiti del 1917, e qui, per davvero, i conti non tornano, nel confronto “neutrale” del testo. È vero, e peraltro ben noto, che le vicende successive al 1789 furono talmente diverse tra loro, dall’impresa napoleonica al ritorno del sovrano, fratello di quello decapitato, all’esperienza di varie forme di Stato, da escludere osmosi dirette e coerenti con le idee della Rivoluzione. Ma quella data, nei principii che affermò, innestandoli nella storia concreta, tra molte e contrastate vicende, ha contribuito a produrre la costituzionalizzazione dell’Europa, ha portato il “marchio incancellabile” dei suoi principii in una idea di libertà politica e di tolleranza, preparata dal pensiero dell’Illuminismo. Un’idea che sta tra noi, nel nostro pur contraddittorio e certe volte tragico presente, sta dentro le nostre costituzioni, è la vicenda che segna un progresso politico incancellabile della storia umana.LEGGI ANCHE

    Il paragone con il 1917 non regge. Dove questa data è diventata Rivoluzione, in Russia, ha dominato ininterrottamente, fino al 1989, per un tempo lungo e omogeneo, prima il terrore politico, poi l’oppressione di popoli confinanti e dello stesso popolo russo. Il “marchio incancellabile della rivoluzione bolscevica” resta, dunque, all’interno di quella società, a testimoniare un fallimento, l’esito povero, chiuso, rovesciato, dell’ultima filosofia della storia che voleva decidere del destino dell’umanità e finì nel terrore staliniano, ma val la pena di ricordare che quella del 1917 fu una “Rivoluzione contro il Capitale”, contro l’opera di Marx, come scrisse Antonio Gramsci. Poco a che vedere, nell’articolazione della sua storia, con la filosofia di Karl Marx. Essa non fu preparata da una filosofia, fu un colpo di Stato ben riuscito. Il terrore incominciò con Lenin, non con Stalin, un marchio incancellabile resta, in forma certo minore, ed è il dispotismo.

    Biagio De Giovanni

  • Siamo esseri umani, tutto il resto è secondario.

    Siamo esseri umani, tutto il resto è secondario.

    Siamo esseri umani, tutto il resto è

    Michele Serra, nell’Amaca di stamattina, inquadra con rara precisione non tanto uno dei guasti del ddl Zan, ma uno dei guasti provocati della sensibilità contemporanea in fatto di diritti. Serra riparte dagli interventi in cui Gianni Cuperlo e Luigi Manconi parlano dell’eccesso definitorio della legge respinta al Senato, e Serra commenta l’eccesso definitorio proponendo una definizione sintetica con cui si può essere in disaccordo soltanto se si è alle prese con seri problemi di convivenza civile: “Nessun essere umano deve essere offeso o discriminato a causa delle proprie scelte sessuali”. Serra corre un serio pericolo a ridurre la questione alle scelte sessuali, ed è un rischio che vorrei correre con lui, perché poi c’è l’aspetto del genere, e si potrebbe aggiungere “e di genere”, ma preferisco correre questo pericolo piuttosto di correre quello di deviare la sua mira da cecchino.

    Qualche giorno fa un amico mi ha scritto una lunga mail per chiedermi conto, lui favorevole, delle mie perplessità sul ddl Zan (l’occasione mi sembra troppo ghiotta e non me la lascio scappare: siccome mi si rimprovera di riempirmi tanto la bocca con la filastrocca dei diritti, ma di non spendere una sillaba per il diritto degli omosessuali all’adozione e a un matrimonio pienamente parificato, ecco, l’ho scritto su Huffpost, sulla Stampa, l’ho detto in almeno uno dei miei interventi settimanali a Radio Capital, l’ho detto in piazza a Bologna a Repubblica delle Idee e lo ripeto volentieri, ditemi dove si deve firmare per il diritto degli omosessuali all’adozione e a un matrimonio pienamente parificato, e io firmo ratto come la folgore). Torno al mio amico. Siccome gli avevo risposto, fra l’altro, che quando la legge penale e più vastamente i codici non parlano di esseri umani ma di ebrei, gay, transessuali, donne e così via, si stabilisce una gerarchia di valori che frantuma il concetto di essere umano (ecco perché sono così felice che Serra abbia recuperato l’espressione, essere umano). Il mio amico ha ulteriormente obiettato che quando sente parlare di esseri umani si allarma più di un po’ perché Adolf Hitler progettò la Shoah rifiutando agli ebrei l’appartenenza al genere umano e sterminandoli proprio per la loro particolare qualifica di ebrei. Ecco, anche il mio amico aveva centrato il punto ma, secondo me, aveva commesso l’errore di ribaltarlo.

    Alla fine della Seconda guerra mondiale, l’Organizzazione delle nazioni unite, davanti al disastro di due guerre mondiali, di due bombe atomiche, della sistematica violazione della Convenzione di Ginevra, soprattutto davanti all’orrido mattatoio della Shoah, promosse la riscrittura della Dichiarazione universale dei diritti umani, da cui i Paesi aderenti avrebbero fatto discendere le loro legislazioni. Dico riscrittura perché si partì dal Bill of Rights inglese (1689), dalla Dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti (1776) e dalla Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino (1789) redatta in Francia all’alba della Rivoluzione. Il testo dell’Onu (1948) si riprometteva di precisare, di sottolineare, di meglio dettagliare i diritti umani rasi al suolo nel precedente trentennio, una sciagura di cui Auschwitz era la cattedrale. Andate a prendervi quel testo: la parola “ebrei” non c’è. L’articolo uno dice che “tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti”; l’articolo due aggiunge che “a ogni individuo spettano tutti i diritti e tutte le libertà enunciate nella presente Dichiarazione senza distinzione alcuna, per ragioni di razza, di colore, di sesso, di lingua, di religione, di opinione politica o di altro genere, di origine nazionale o sociale, di ricchezza, di nascita o di altra condizione”.

    Perché, tre anni dopo la Shoah, non c’è un passaggio sugli ebrei? Mi pare evidente, per il totale rifiuto del modo di ragionare di Hitler: mettere un accento sugli ebrei avrebbe significato sottrarli di nuovo alla loro umanità per racchiuderli dentro una qualifica, o dentro un ghetto: ebrei. Quei due articoli sono di una perfezione inemendabile: se faccio del male a un essere umano commetto un crimine, se faccio del male a un essere umano perché è di un altro colore, di un’altra religione, di altra condizione, di altro sesso, commetto un crimine più grave e come tale sarà trattato. Essere umano: soltanto questo è il grande insieme, il resto è riduzione della nostra umanità a qualcosa di secondario.

  • Scuola in Cina

    Dalla DAD all’OMO, un altro insegnamento è possibile

    20 Giugno 2021 3 minuti di lettura

    Il 15 marzo del 2020 dovevo partire per la Cina per iniziare il mio consueto semestre universitario. Insegno a Guangzhou da cinque anni, due corsi su etica e tecnologie emergenti con circa 45 studenti ognuno. Eravamo in piena pandemia e fino a due settimane prima non sapevo se l’università restava aperta, se dovevamo utilizzare una piattaforma online o se i corsi erano rimandati o addirittura cancellati. Conoscendo tutte le piattaforme a disposizione ero piuttosto tranquilla anche se non le avevo mai utilizzate per gestire due dozzine di persone in contemporanea. 

    Insegnare in Cina è un’esperienza notevole perché In materia di istruzione gli studenti sono più audaci e determinati di quelli occidentali. Si impegnano, sono esigenti e scrupolosi. Sono preparati e ti rispettano, come insegna il loro maestro Confucio. 

    In alcune scuole, gli allievi cominciano a imparare a memoria gli insegnamenti di Confucio fin da piccoli. “Tra i 2 e i 6 anni, la capacità di memorizzazione è eccellente. Noi piantiamo i semi della pietà filiale, del rispetto per gli insegnanti e della compassione”, ha detto il direttore di un asilo nel centro di Wuhan.nullPUBBLICITÀnullnull

    Ma non solo tradizione, le scuole cinesi adottano con entusiasmo anche l’intelligenza artificiale, come tecnologie di riconoscimento facciale, sistemi che gestiscono la sicurezza all’interno dei campus e software che registrano le presenze degli studenti. 

    D’altra parte gli sforzi della Cina per guidare l’IA inizia nella scuola. Nel febbraio 2019 nella città di Jinhua, nella provincia di Zhejiang, in una classe primaria entra un dispositivo per monitorare le onde cerebrali dei piccoli studenti: il brain scanner. Si utilizza al fine di migliorare la concentrazione e l’apprendimento degli alunni e di garantire gli insegnanti di identificare chi si distrae. Qualche mese dopo Supchina, una piattaforma americana di notizie incentrata sulla Cina pubblica l’immagine che ritrae i bambini in classe, seduti ai banchi, con il brain scanner ben visibile sulla fronte. La notizia suscita accese polemiche internazionali. Discutono genitori e professionisti dell’educazione, si impauriscono le famiglie, tanto che l’esperimento viene sospeso. 

    A prescindere dell’immagine inquietante, è necessario riflettere su come stare al passo con la tecnologia esponenziale applicata all’educazione. E’ possibile riformulare un sistema educativo utilizzando la tecnologia e salvaguardando il rapporto tra gli studenti, le sinergie con i professori e i valori morali che si imparano con l’esperienza? Possiamo gestire la tecnologia senza farci gestire da essa?

    Ho affrontato questa tematica con i miei allievi La figura dell’insegnante in carne ed ossa è determinante anche se il modello didattico tradizionale, sia in classe che virtuale, va completamente rivoluzionato. Le lezioni odierne “one size fits all”, una misura uguale per tutti, sono strutturate con poca o nessuna flessibilità e le piattaforme online sono sotto-utilizzate o spesso considerate solo come opportunità visive, come fornitrici di telecamera. Riusciremo ad integrare online e offline senza perdere i vantaggi dell’una o dell’altra soluzione?

    Se si considera che l’educazione online è molto più che un sostituto dell’insegnamento in classe, il cambiamento deve essere radicale. E’ necessario un approccio sistemico e il modello O-M-O, Online-Merge-Offline cinese puo’ forse ispirare una riforma didattica vincente. 

    Nei programmi O-M-O, i ruoli dell’insegnante (Chief Learning Facilitator) e dello studente (Active Learner) sono aggiornati e ridefiniti. L’insegnante deve conoscere profondamente la sua materia, deve avere una grande padronanza/conoscenza delle tecnologie d’insegnamento online e deve essere in grado di creare un’esperienza che sia stimolante, educativa e divertente. Lo studente deve essere dinamico, efficiente, disciplinato e deve saper sfruttare al meglio la ricchezza delle risorse a disposizione. Emerge anche una nuova figura, il Learning Facilitator, l’assistente, che ha un compito piu’ specifico di quello canonico dell’aiuto docente. Deve saper gestire piccoli gruppi di singoli studenti (non piu’ di sei) e controllare che siano sempre allineati e al corrente. Comporta un costo aggiuntivo ma questa figura garantisce il risultato finale. 

    Nel prossimo futuro le classi, in particolare modo quelle universitarie, saranno orizzontali, differenziate e interdisciplinari. Come possiamo raggiungere gli studenti con lezioni che siano coinvolgenti, pratiche, scalabili ed eventualmente personalizzate? Ci aiuterà sicuramente l’intelligenza artificiale, che utilizzando algoritmi di machine learning, sarà in grado di valutare il progresso scolastico di ogni studente e in tempo reale, selezionare e compilare i contenuti multimediali più rilevanti e adeguati ai suoi interessi, alla sua preparazione, alla sua storia personale.

    “Ci sforziamo di fornire ad ogni studente un Super Insegnante AI” afferma Squirrel AI, la società cinese più emergente nell’adaptive learning, l’insegnamento su misura. Il sistema sembra funzionare a meraviglia tuttavia il problema è che se non proteggiamo il ruolo dell’insegnante (umano) la tecnologia ci scalza anche in questo settore. Ben venga l’adaptive learning ma cerchiamo di —integrare, non di sostituire. 

    Anche perché Confucio dice che: “Se pensi in termini di un anno, pianta un seme; se in termini di dieci anni, pianta alberi; se in termini di 100 anni, insegna alla gente”.
    Vogliamo delegare l’educazione delle nuove generazioni ad un sistema, che il piu’ delle volte è ancora biased e pieno di pregiudizi?

  • Amo D’Alema in maniera viscerale, è l’unico che se ne frega dello spirito del tempo

    Guia Soncini: “Amo D’Alema in maniera viscerale, è l’unico che se ne frega dello spirito del tempo”

    Intervista alla scrittrice Guia Soncini: “Il lavoro si paga, meglio lui di Draghi che fa il premier gratis”

    Guia
    Guia Soncini

    A Massimo D’Alema è stato contestato l’incasso di 10 mila euro al mese da presidente della Fondazione dei Socialisti europei. Lui ha risposto: “Le mie prestazioni intellettuali valgono più di quel che mi hanno dato”. La scrittrice Guia Soncini ne ha parlato su Linkiesta. “Comunismo è dove non mi siedo io. Draghi impari il senso del capitalismo da D’Alema” è il titolo della sua rubrica. Le abbiamo chiesto di commentare la vicenda. “D’Alema ha fatto benissimo a prendere quei soldi. Poi ha usato la parola “prestazione” che sa subito di sesso, e fa molto ridere”. 

    D’Alema, dicendo “Alla Feps ero pagato meno del mio valore, è una vendetta politica”, ha aperto una questione per cui tutti hanno gridato allo scandalo.  Lei, nella sua rubrica “L’Avvelenata”, ha scritto del rapporto malato tra Italia e Capitalismo. 

    “In Italia abbiamo un rapporto complicato con i soldi, ma non siamo gli unici. L’altro giorno in un editoriale sul New York Times c’era scritto: “La mia generazione ha fallito perché l’obiettivo che c’eravamo preposti era l’eliminazione dei miliardari”. Prego? Ma come? Allora rivolete il comunismo, diceva Corrado Guzzanti. La verità è che anche il capitalismo più capitalista, cioè quello americano, è diventato apologetico come il nostro, pronto ad andar dietro a istanze poveracciste un po’ a caso. Un americano mi spiegava come gli americani abbiano smesso di essere quelli che desideravano fare carriera per comprare una limousine, per diventare quelli che alla limousine vorrebbero dare fuoco”.

    Si sono allineati?

    “Ci emulano in molte cose. Hanno avuto Trump dopo che in Italia abbiamo avuto Berlusconi. Ora si sono adeguati anche a questo rapporto contraddittorio che noi abbiamo con i soldi. Alla nostra stupidissima voglia di trovare il denaro una cosa brutta. Il sogno americano era diventare ricchi: se eri un ragazzino povero, pensavi a come risolvere i problemi che avresti avuto una volta diventato un adulto ricco. Oggi gli americani contestano i guadagni di Jeff Bezos”.

    D’Alema come Jeff Bezos? 

    “Dicono che non è giusto che Bezos guadagni non so quanti milioni di dollari al giorno [321, ndr] e che un magazziniere dei Amazon prenda 2mila dollari al mese. Certo è vero, c’è la disparità, la diseguaglianza, ma perché un imprenditore dovrebbe sbattersi, mettere su un’impresa, se non perché sa che se riuscirà, se non fallirà, guadagnerà uno sproposito? Senza considerare il fatto che un miliardario come Bezos i soldi li ridistribuisce anche”.

    E poi Amazon paga anche le tasse…

    “Oltretutto. Pensiamo anche alle varie accuse di elusione e di utilizzare tutti i buchi legislativi per pagarne meno possibile. Mica è colpa dei miliardari, ma di chi non tappa i buchi legislativi. Stiamo parlando di un Paese in cui i miliardi sono perlopiù fatti e non ereditati. È gente che si è sbattuta ed è arrivata a un traguardo. Ma che volete di più dalla vita. Tra l’altro credo che il fatto che i soldi non siano ereditati dalla famiglia crei una ulteriore ragione di ira sociale negli Usa. In Italia puoi sempre raccontarti che gli altri abbiano più successo di te perché sono raccomandati o hanno ereditato da papà. In un Paese in cui se cominci da un garage puoi diventare miliardario, è difficile dare la colpa agli altri”.  

    E così succede che D’Alema viene accusato di essere l’uomo dalle “scarpe milionarie”.

    “D’Alema è stato Fedez prima di Fedez. Quando noi diciamo al marito della Ferragni che non deve fare l’elemosina in Lamborghini, gli stiamo dicendo che avere una macchina da ricco è una cosa che ci offende. Non consideriamo che in quel modo fa lavorare gli operai della Lamborghini. L’Italia produce lusso: macchine, vestiti, vini buoni. Non produciamo componenti. Che sia D’Alema che si compra le scarpe fatte a mano o una barca, o Fedez che compra la Lamborghini, o io che mi compro una borsa costosa, tutti stiamo facendo lavorare il Made in Italy. Provvediamo come Bezos a far guadagnare l’operaio, che dello stipendio che discende dal lusso vive. In che modo il mondo sarebbe migliore se Fedez andasse in bicicletta?”.

    Nella rubrica su D’Alema scrive: “Quando lo spirito del tempo è particolarmente scemo, qualcuno deve trovare la forza di andare contro lo spirito del tempo. Di dire: non solo dovete pagarmi, ma anche bene”.

    “La cosa interessante è che essendo D’Alema novecentesco non si scusa. In un mondo in cui Mario Draghi rinuncia allo stipendio, Fedez si mortifica e dice venderò la Lamborghini, io amo D’Alema in maniera viscerale. Perché ormai hanno vinto loro, quelli delle polemiche dei social, e non c’è modo di sottrarsi. Perché oggi o ti scusi, ti spieghi, e fai tutte quelle cose che la Casa Reale inglese ordinava di non fare, ovvero mai scusarsi mai spiegarsi (“Never complain, never explain, never say I’m sorry”), oppure sei un mostro che non tiene conto dello spirito del tempo, del sentimento popolare. Gli americani dicono “Read the room”, Cerca di capire quello che vuole la stanza in cui entri. Ma sono gli americani senza personalità: Steve Jobs diceva che il compratore non sapeva cosa desiderava finché non glielo diceva lui. Non mi viene in mente nessuno che abbia combinato qualcosa di rilevante assecondando le folle”.

    D’Alema è uno dei pochi che non risponde al linguaggio del tempo

    “Non so dire se sia un aspetto del suo carattere oppure se può permettersi di farlo perché non ha più niente da perdere. Mi viene in mente solo un altro, nell’Italia di oggi, che si permetta di dire quello che vuole senza mai scusarsi: Fiorello. Se stai sui social oggi non puoi non rispondere. Decidere di fregarsene è una scelta possibile ma non per chi fa un mestiere che dipende dal consenso popolare, come l’attrice, il politico, o il marito dell’influencer”. 

    Nella tua rubrica oltre a citare Draghi che si taglia lo stipendio parli anche di Maria de Filippi che nel 2017 ha condotto il Festival di Sanremo gratis. 

    “Quello che nessuno dice è che i soldi sono come i filtri di Instagram. Se sei figa puoi non usarli perché sei perfetta anche con la luce imperfetta. Puoi rinunciare al denaro se ne hai che ti avanza. Per cui credo che sia la De Filippi sia Draghi non ne avessero semplicemente bisogno. Il problema è che il messaggio è sbagliato. È un messaggio di comodo. Senza compenso nessuno ti potrà dire: “Hai preso troppi soldi dalla Rai”. Credo sia questa una delle ragioni per cui Fiorello fa così poca televisione, per non sentirsi dire: “Ah, sei pagato fantastiliardi coi nostri soldi, e noi non arriviamo a fine mese”. Una persona normale, che sappia quanto vale il suo lavoro, non ha nessuna voglia di giustificarlo a una massa di incompetenti. Non deve spiegarlo all’utente di internet. Se il dirigente dell’azienda di comunicazione non vuole fare il Direttore Generale della Rai a 200mila euro è perché altrove gliene danno 600mila. Capisco che sembrino cifre enormi, ma il mercato esiste”.

    Il messaggio che passa è che chi non si fa pagare è bravo e dignitoso. Mentre se ti fai pagare sei avido e immorale. 

    “Ed è una cosa che vale soprattutto per le donne. Perché chiedere i soldi non è considerato femminile. Ed è colpa nostra, sia chiaro. Perché vogliamo essere seduttive. Ci interessa che quando usciamo da una stanza nessuno dica “quella stronza”. Chiaramente se chiedi più soldi ti diranno che sei una stronza. Ma probabilmente avrai avuto più soldi. Sarai stronza e contenta”. 

    Eppure molte non la pensano così. 

    “Ellen Pompeo, di Grey’Anatomy, ha chiesto più soldi per fare ulteriori stagioni di quello sceneggiato, glieli hanno dati, è diventata l’attrice più pagata della televisione americana. In un’intervista ha detto una cosa sacrosanta: “I soldi bisogna chiederli”. Ha ragione, perché nessuno dirà: “Ehi ragazza, pensavo di darti più soldi perché così mi costi di più”. Non è vero che le donne vengono pagate poco perché le aziende pensano che valgano meno degli uomini, vengono pagate meno perché non chiedono di essere pagate di più”.

    Non hanno capito che chiedere fa parte del lavoro?

    “Il voler essere simpatici è il problema delle donne e del divario salariale. Spesso si preferisce restare tranquille, non creare problemi, perché così si può tornare a casa appena il bambino ha la tosse all’asilo, invece di essere quelle che siccome vengono pagate tanto devono anche essere più responsabili”.

    A proposito di donne, parliamo del caso Aspesi. La giornalista di Repubblica ha detto che i morti in fabbrica sono un problema più grave del catcalling. È stata accusata di essere una cattiva femminista, proprio lei che ha fatto la storia del femminismo in Italia. Perché una cosa così condivisibile viene attaccata sui social?

    “Tra i commenti alla questione c’era gente che riferiva d’essere informata sulla sua carriera giacché aveva cercato cinque minuti prima la voce Aspesi su Wikipedia. Va benissimo non sapere niente, non si è tenuti a sapere tutto, però perché ne dibatti? Questo non mi è chiaro. È uno dei tanti meccanismi deliranti dei social. Il bello è che la Aspesi si rivolgeva a loro, a quelle che si occupano di body-positivity, catcalling sui social. E tutte loro, il giorno dopo, per far vedere che parlavano di cose davvero importanti, discettavano di Israele e Palestina, senza però saperne molto. Ho scritto una rubrica anche su questo, uno degli opinionisti di Instagram ha risposto che non ho capito quanto lui fosse un divulgatore, e che prima di fare un video su Israele e Palestina lui aveva studiato 12 ore. Quest’idea del corso intensivo da autodidatta, 12 ore per sapere tutto delle guerre in Medioriente, mi è sembrata davvero molto interessante”. 

    Per tornare a D’Alema, anche in questo caso gli utenti di internet si sono indignati.

    “Se fossi D’Alema andrei in Palestina con le scarpe fatte a mano e spargerei contanti sulla folla. Ma forse questa frase non si può scrivere senza che venga presa sul serio: dire “era una battuta” è ormai doveroso quasi quanto fingersi poveri. Dal punto di vista di D’Alema, poi, immagino non ci sia granché da ridere: è come se ti accusassero di rubare lo stipendio. Il problema non è il suo che ha ritenuto che le sue “prestazioni” andassero pagate, ma di quelli che lo hanno preceduto nel ruolo di presidente della Feps, e lo hanno fatto gratis. È il contesto che lo fa sembrare avido. Ma ripeto, perché uno dovrebbe lavorare senza essere pagato? La cosa che mi lascia stupita è questa massa indistinta che è quella che pretende che D’Alema lavori gratis, che la De Filippi lavori gratis, che si compiace che Alessandro Di Battista restituisca i soldi allo stesso modo di quando li restituisce Draghi. Questa è la stessa gente che fa la lagna sui social perché le offrono solo stage non retribuiti. È ora di fare pace con il cervello. Benedetti ragazzi, pensate davvero che un domani, dopo questa campagna per slegare il lavoro dai soldi, vi offriranno uno stage retribuito pagandovi con i soldi restituiti da Draghi e D’Alema?”.

  • L’ha detto Freud, io non ne ho colpa.

    La  folla  è  straordinariamente  influenzabile  e  credula,  manca  di  senso  critico,  niente  per  essa  è inverosimile.  Pensa  per  immagini  che  si  richiamano  le  une  alle  altre  per  associazione,  come  negli stati  in  cui  l’individuo  dà  libero  corso  alla  propria  immaginazione,  senza  che  un’istanza  razionale intervenga  a  giudicare  sul  grado  della  loro  conformità  alla  realtà.  I  sentimenti  della  folla  sono sempre molto semplici e molto esaltati. Essa non conosce né il dubbio né l’incertezza15.

    La  folla  giunge  subito  agli  estremi.  Un  accenno  di  sospetto  si  trasforma  immediatamente  in indiscutibile evidenza. Una semplice antipatia… diviene subito odio feroce16. Portata  a  tutti  gli  eccessi,  la  folla  è  influenzata  solo  da  eccitazioni  esasperate.  Chiunque  voglia agire  su  di  essa,  non  ha  bisogno  di  dare  ai  propri  argomenti  un  carattere  logico:  deve  presentare immagini dai colori più stridenti, esagerare, ripetere incessantemente la stessa cosa. Non avendo nessun dubbio su ciò che essa crede verità o errore, e con la chiara nozione della propria forza, la massa è tanto obbediente all’autorità  quanto  intollerante…  Sente  il  prestigio  della  forza,  ed  è  scarsamente  impressionata  dalla  bontà,  considerata  una  forma  di debolezza.

    Dai suoi eroi la folla esige la forza, persino la violenza. Vuole essere dominata e soggiogata e temere il suo padrone… Infatti la folla ha un irriducibile istinto conservatore e, come tutti i primitivi, un orrore inconscio per ogni innovazione o progresso e un illimitato rispetto per la tradizione. Se  ci  si  vuol  fare  un’idea  esatta  della  moralità  delle  folle,  si  deve  considerare  il  fatto  che  negli individui  riuniti  in  esse  sono  scomparse  tutte  le  inibizioni  individuali,  mentre  gli  istinti  crudeli, animaleschi,  distruttori,  residui  delle  epoche  primitive,  che  giacciono  nel  fondo  di  ciascuno,  si ridestano  e  cercano  la  propria  soddisfazione.

    (Sigmund Freud, Psicologia delle masse e analisi dell’Io, 1921)

  • Ci facciamo due risate?

    Ci facciamo due risate?

    Dove -Piazza delle Vittoria Pianello Vallesina lato Sapienza

    Quando -Gennaio 2021

    Come -Documentazione fotografica

    Cosa -Assembramento di n. 13 persone probabilmente anziane

    Chi -Una persona si è sentita in dovere di dare giudizi assennati sulla situazione.

    Scena -Tre gruppetti di persone per un totale di 13, distribuite nella piazza, lato SAPIENZA (ci tengo a

    sottolinearlo, visto che il lato MALIGNO è interdetto ormai da mesi), tutti con mascherina, tranne uno.

    Ci avrei fatto una risata, niente di male a sottolineare comportamenti presumibilmente pericolosi, poi mi sono accorto di un commento, che prendo come spunto per fare qualche considerazione.

    Consideriamolo “Humor inglese”, consideriamo che, per come è scritto, la maestra delle elementari si starà ancora chiedendo dove ha sbagliato, consideriamo che l’istat ha certificato una percentuale elevatissima di analfabeti di ritorno, consideriamo tutto, alla fine però resta il senso del messaggio che è spaventoso. Spaventoso perché ha trovato un paio di persone che si sono precipitate a comunicare che si stavano sbellicando dalle risate, spaventoso perché è transitato su gruppo privato che ha dei moderatori, spaventoso perché alla fine di questa pandemia, se tutto va bene, se il virus non muta, se non comincia a colpire altre fasce d’età, se arriviamo prima dell’estate a vaccinare quelli candidati alle “scarpe di cartone”, comunque sia, si conteranno almeno 100.000 morti. Erano anziani? si, avevano una speranza di vita limitata? certo, ma sarebbero vissuti almeno un altro anno, e questi ridono su 100.000 anni di vita mancata. Non è solo per i 100.000 anni, ma queste persone erano le ultime depositarie dei ricordi dei loro padri e dei loro nonni, morti da decenni, ma che continuavano a vivere in loro, nei loro racconti, nella loro saggezza e che scompaiono per sempre nell’oblio. Questi fanno battute su chi ha visto morire la mamma o il papà senza poterli salutare e sono stati privati di un altro anno di vita insieme a loro, augurano la morte ai loro compaesani, hanno trovato il posto giusto per poter esprimere impunemente le loro battute macabre. C’è qualcosa di profondamente immorale, di schifoso, è una mentalità che trovo anche in altri post e che non può essere liquidata con la solita battuta “so’ ragazzi”.

  • La Madre

    Primo Levi

    PRIMO LEVI: “…E venne la notte, e fu una notte tale, che si conobbe che occhi umani non avrebbero dovuto assistervi e sopravvivere. Tutti sentirono questo: nessuno dei guardiani, né italiani né tedeschi, ebbe animo di venire a vedere che cosa fanno gli uomini quando sanno di dover morire. Ognuno si congedò dalla vita nel modo che più gli si addiceva. Alcuni pregarono, altri bevvero oltre misura, altri si inebriarono di nefanda ultima passione. Ma le madri vegliarono a preparare con dolce cura il cibo per il viaggio, e lavarono i bambini, e fecero i bagagli, e all’alba i fili spinati erano pieni di biancheria infantile stesa al vento ad asciugare; e non dimenticarono le fasce, e i giocattoli, e i cuscini, e le cento piccole cose che esse ben sanno, e di cui i bambini hanno in ogni caso bisogno. Non fareste anche voi altrettanto? Se dovessero uccidervi domani col vostro bambino, voi non gli dareste oggi da mangiare?”

  • I vecchi

    I vecchi

    Senti quella pelle ruvida
    Un gran freddo dentro l’anima
    Fa fatica anche una lacrima
    A scendere giù
    Troppe attese dietro l’angolo
    Gioie che non ti appartengono
    Questo tempo inconciliabile gioca contro di te

    Ecco come si finisce poi
    Inchiodati a una finestra noi
    Spettatori malinconici
    Di felicità impossibili
    Tanti viaggi rimandati e giù
    Valigie vuote da un’eternità
    Quel dolore che non sai cos’è
    Solo lui non ti abbandonerà, mai
    Oh mai

    È un rifugio quel malessere
    Troppa fretta in quel tuo crescere
    Non si fanno più miracoli
    Adesso non più

    Non dar retta a quelle bambole
    Non toccare quelle pillole
    Quella suora ha un bel carattere
    Ci sa fare con le anime

    Ti darei gli occhi miei per vedere ciò che non vedi
    L’energia, l’allegria per strapparti ancora sorrisi
    Dirti sì, sempre sì e riuscire a farti volare
    Dove vuoi, dove sai senza più quel peso sul cuore
    Nasconderti le nuove, quell’inverno che ti fa male
    Curarti le ferite e poi qualche dente in più per mangiare
    E poi vederti ridere e poi vederti correre ancora
    Dimentica, c’è chi dimentica
    Distrattamente un fiore una domenica
    E poi silenzi
    E poi silenzi
    Silenzi

    Nei giardini che nessuno sa
    Si respira l’inutilità
    C’è rispetto, grande pulizia
    È quasi follia
    Non sai com’è bello stringerti
    Ritrovarsi qui a difenderti
    E vestirti e pettinarti, sì
    E sussurrarti non arrenderti
    Nei giardini che nessuno sa
    Quanta vita si trascina qua
    Solo acciacchi, piccole anemie
    Siamo niente senza fantasie

    Sorreggili, aiutali, ti prego non lasciarli cadere
    Esili, fragili non negargli un po’ del tuo amore
    Stelle che ora tacciono, ma daranno un senso al quel cielo
    Gli uomini non brillano se non sono stelle anche loro

    Mani che ora tremano perché il vento soffia più forte
    Non lasciarli adesso no, che non li sorprenda la morte
    Siamo noi gli inabili che pur avendo a volte non diamo
    Dimentica, c’è chi dimentica
    Distrattamente un fiore una domenica
    E poi silenzi
    E poi silenzi
    Silenzi

  • Perché non basta essere esperti per essere considerati affidabili?

    Perché non basta essere esperti per essere considerati affidabili?

    SCIENZEANTONIO SGOBBA / IMMAGINE DA FACEBOOK: CARTELLO DI UNA MANIFESTAZIONE NO-VAX, IL 20 GIUGNO 2020 A FIRENZE. 11.9.2020

    Perché non basta essere esperti per essere considerati affidabili?

    Una riflessione filosofica sulla sfiducia nella scienza.

    Antonio Sgobba è giornalista. Il suo ultimo libro è “La società della fiducia. Da Platone a WhatsApp” edito da Il Saggiatore. È stato il responsabile della sezione culturale di IL, ha collaborato con La lettura, Wired, Pagina 99 e altre testate. Dal 2016 lavora in Rai.

    Da più parti si ripete che in questo momento abbiamo un diffuso problema di fiducia; si parla in particolare di mancanza di fiducia negli esperti. Non è una novità, la fiducia è sempre stata fragile; è in crisi più o meno da quando esiste. La diffidenza nei confronti degli esperti è antica come la democrazia, e in fondo non c’è mai stata un’età dell’oro in cui i competenti regnassero incontrastati e amati dal popolo. Come in tutte le relazioni ci sono stati alti e bassi, questo è sicuramente uno dei momenti bassi, né il primo né l’ultimo della sua storia. Quello che dovrebbero chiedersi gli esperti non è come riscostruire la fiducia distrutta ma come ritrovare l’affidabilità perduta.

    (…)

    “Vorrei proporre alla benevola considerazione del lettore una teoria che potrà forse sembrare paradossale e sovversiva”. Cominciava con queste parole il saggio di Bertrand Russell Sul valore dello scetticismo, scritto nel 1928, e poi raccolto nei suoi Saggi scettici. “La teoria è questa”, continua Russell, “che sarebbe opportuno non prestar fede a una proposizione fino a quando non ci sia un fondato motivo per supporla vera”. Bisogna riconoscere che è una bella idea, un’espressione moderata ma impegnativa di scetticismo; il mondo sarebbe davvero migliore se tutti facessimo così. “Se questa opinione divenisse comune, ne risulterebbero completamente trasformati la nostra vita sociale e il nostro sistema politico” riconosceva Russell.

    Questa teoria ci può guidare anche quando ci troviamo nella situazione in cui dobbiamo giudicare degli esperti in disaccordo tra loro. Il filosofo inglese scrive proprio che lo scetticismo che lui auspica si riduce a queste tre proposizioni:

    1) che quando gli esperti concordino nell’affermare una cosa, l’opinione opposta non può più essere ritenuta certa;

    2) che quando essi non sono d’accordo, nessuna opzione può essere considerata certa dai non esperti;

    3) che quando concordemente gli esperti affermano che non esiste alcun motivo sufficiente per un’opinione positiva, l’uomo comune farebbe bene a sospendere il suo giudizio.

    Tutto qui. “Queste proposizioni sembrano forse semplicissime: eppure una volta accettate, rivoluzionerebbero completamente la vita umana”, scriveva Russell.

    Quasi un secolo dopo possiamo dire che la rivoluzione scettica non è mai arrivata. L’autore era consapevole delle difficoltà, sapeva che “le opinioni sostenute con passione sono sempre quelle per le quali non esiste alcuna buona giustificazione”. Una frase forse troppo assoluta per uno scettico – sempre? –, ma se guardiamo ai dibattiti pubblici con cui abbiamo a che fare è un’affermazione vera in molti casi.

    Le proposizioni di Russell si basavano su un’assunzione implicita: gli esperti sono autorità epistemiche. È proprio questa l’idea che oggi ci sembra più in discussione. I filosofi la definiscono così:

    L’autorità epistemica è la capacità dell’esperto di influire su altri individui “imponendo” loro l’adozione di una credenza sulla base della superiorità epistemica.

    C’è qui una differenza fondamentale rispetto a un altro tipo di autorità, la cosiddetta “autorità pratica”, quella in grado di imporre l’esecuzione di un’azione; sul piano epistemico le cose stanno diversamente, non si può imporre a qualcun altro di credere qualcosa. Lo fa notare il filosofo Michel Croce in un saggio del 2020 (Di chi posso fidarmi, Il Mulino): “In generale, il termine ‘autorità epistemica’ non gode di buona fama, per via del valore che attribuiamo all’ideale dell’autonomia del soggetto epistemico, che apparentemente è in contrasto con la nozione e il ruolo dell’autorità epistemica”.

    Quello che è difficile da accettare è l’idea stessa che esistano individui autorizzati a dirci cosa credere. Per questo i filosofi considerano l’“autorità epistemica” esclusivamente la proprietà tipica di quanti sono esperti in un determinato ambito. Questa posizione è tacitamente presente anche in gran parte del dibattito pubblico.

    Può essere invece utile, per fare un passo avanti nel dibattito, distinguere i due concetti. Pensare a un’autorità epistemica come qualcosa di diverso da un esperto. Non è così astratto come sembra. Dobbiamo la distinzione alla filosofa americana Linda Zagzebski. Un criterio per distinguere esperti e autorità epistemiche sta nel classificare i soggetti in base al ruolo che svolgono all’interno della comunità e sono tre gli aspetti rilevanti: l’affidabilità dei soggetti epistemici, la loro relazione con i rispettivi interlocutori, le loro abilità intellettuali. Entrambi i soggetti, l’esperto e l’autorità epistemica, sono affidabili, diverso invece è il rapporto con gli interlocutori inesperti: “La nozione di esperto richiede che il soggetto sia epistemicamente superiore alla maggioranza degli individui di un determinato ambito, mentre la nozione di autorità epistemica richiede semplicemente che questi sia superiore all’interlocutore”; l’esperto può quindi avere una migliore comprensione del settore in questione, mentre l’autorità epistemica è in una relazione personale migliore con il soggetto che ne sa di meno.

    La gente non separa la scienza dalle sue implicazioni morali, chi non crede al cambiamento climatico non lo fa perché contesta l’evidenza, ma perché quelle tesi sono in conflitto con i propri valori.

    L’elemento della relazione con l’interlocutore è un requisito necessario per l’autorità epistemica, non lo è per l’esperto: un esperto può essere in grado di contribuire al progresso della sua disciplina indipendentemente dalle relazioni che intrattiene con particolari interlocutori. Un’autorità epistemica e un esperto hanno anche diverse virtù intellettuali: le conoscenze dell’autorità si rivolgono a chi non è un addetto ai lavori, le qualità dell’esperto sono invece orientate alla ricerca.

    Gli scienziati, quindi, per essere creduti devono fare un passo in più, devono ricordarsi chi sono. La ricerca scientifica è sinonimo di patto, comunità, consenso, ma spesso gli scienziati si limitano a riaffermare la loro neutralità, a insistere sul fatto che la scienza non ha un colore politico, sociale, economico o morale, dicendo cose come: “Alla forza di gravità non importa che tu sia di destra o di sinistra”, “Le piogge acide cadono sui ricchi e sui poveri”, “Le emissioni radioattive ti colpiscono sia prima sia dopo le elezioni”.

    Tutto vero, ma non basta. Non è solo su queste basi che possiamo fidarci di loro: che sia corretto o no, l’opinione pubblica mette in relazione la scienza con le sue implicazioni; una distinzione netta tra fatti e valori non funziona. La gente non separa la scienza dalle sue implicazioni morali, chi non crede al cambiamento climatico non lo fa perché contesta l’evidenza, ma perché quelle tesi sono in conflitto con i propri valori, politici o religiosi, o con i propri interessi economici, il proprio stile di vita.

    Gli scienziati di solito considerano queste critiche fallaci: ad hominem, quindi illegittime. “Ma se prendiamo sul serio la conclusione che la scienza è un processo sociale consensuale, allora chi sono gli scienziati è una questione rilevante” ricorda Naomi Oreskes nel suo ultimo saggio, Why Trust Science? Una delle tesi fondamentali del lavoro dell’autrice americana, biologa di formazione, è che l’idea della scienza come un’attività neutrale, priva di valori, sia un mito: dobbiamo ricordare che l’utilità, economica o di altro tipo, è stata a lungo una giustificazione per sostenere la scienza, dal punto di vista finanziario e culturale. La scienza non è un’impresa neutrale e non lo sono gli scienziati come individui. “Nessuno può essere davvero neutrale, quando gli scienziati dicono di esserlo, dicono il falso perché affermano l’impossibile. A meno che non li si voglia considerare ingenui o degli idiot savants, dovremmo considerarli disonesti” scrive Oreskes.

    I valori di molti scienziati possono (o dovrebbero) essere condivisibili da un grande pubblico. Per gli scienziati la riconquista della fiducia passa dal superamento del mito dell’oggettività.

    Onestà, apertura, trasparenza sono valori propri della ricerca scientifica. “Come possono gli scienziati essere onesti e allo stesso tempo negare di avere dei valori?” si chiede. La riluttanza degli scienziati a discutere dei propri valori potrebbe dare l’impressione che quei valori siano problematici e che quindi debbano essere nascosti, oppure che non ci sia nessun valore in cui credono. Voi vi fidereste di una persona che non ha valori? Credereste a una persona che non crede in niente? Direi proprio di no, avremmo a che fare con un sociopatico. Se invece credessimo che quella persona condivide almeno qualcuno dei tuoi valori, non per forza tutti, potremmo essere più disposti a starla a sentire. La neutralità rispetto ai valori può essere difesa da un punto di vista epistemologico, ma nella pratica non funziona: senza valori non c’è comunicazione e non si possono costruire legami di fiducia.

    Invece è successo il contrario. I valori di molti scienziati possono (o dovrebbero) essere condivisibili da un grande pubblico. Anche per gli scienziati, come per i giornalisti, la riconquista della fiducia passa dal superamento del mito dell’oggettività. “Anche se siamo in disaccordo” conclude Oreskes “su molte questioni politiche, i nostri valori possono coincidere, almeno in parte. Chiarire i punti su cui possiamo essere d’accordo, e spiegare in che modo sono legati al lavoro scientifico, può aiutarci a superare la sfiducia che spesso sembra prevalere”.

    Estratto da La società della fiducia. Da Platone a WhatsApp, di Antonio Sgobba (il Saggiatore).

  • “VOLEVO SUCCHIARE TUTTO IL MIDOLLO DELLA VITA” – L’EREMITAGGIO DI HENRY DAVID THOREAU

    “VOLEVO SUCCHIARE TUTTO IL MIDOLLO DELLA VITA” – L’EREMITAGGIO DI HENRY DAVID THOREAU

    Mirella Serri per “La Stampa”

    HENRY DAVID THOREAU 8

    «Per la prima estate non lessi libri ma mi dedicai intensamente a coltivare i miei fagioli». Rinunciare ai libri? Com’ era possibile per uno studioso del

    henry david thoreau 8

    calibro di Henry David Thoreau, uno dei più brillanti e conosciuti allievi di Harvard? Thoreau, che vide la luce un anno prima di Karl Marx, a dieci anni, nel 1827, scrisse la sua prima poesia, The Seasons.

    A dodici parlava latino, greco, francese, italiano, tedesco e in parte pure lo spagnolo. Nel 1833 entrò con una borsa di studio all’Harvard College per studiare retorica, religione, filosofia e scienze. Sette anni più tardi produsse un saggio epico in latino, acclamato dall’Accademia: Aulus Persius Flaccus.

    HENRY DAVID THOREAU 4

    henry david thoreau 4

    E un poema: Sympathy. Poi però, a 28 anni, il filosofo di Concord si rifugiò nei boschi per mettere in pratica i suoi rigorosi principi di full immersion nell’ambiente naturale e pose in un cantuccio i testi di greco e latino, la compagnia prediletta di tante serate. Non rinunciò però solo alla cultura. Amava le passeggiate in abiti eleganti sul corso di Concord, le allegre compagnie degli amici goliardi, le feste negli alberghi di lusso che stavano spuntando come funghi nella cittadina del Massachussets.

    La prima rivoluzione industriale era in corso e suo padre aveva aperto a Concord una fabbrica di matite. Henry David si dedicò anche a questo opificio di famiglia con tanta passione e ne incentivò la produzione mettendo a punto un nuovo tipo di mina per i lapis. Eppure nel 1845 fece a meno di tutto questo e decise di vivere una seconda vita che nulla aveva in comune con la prima. La scelta fu netta e drastica e Thoreau, che era stato anche un eccellente uomo di azienda, divenne nella sua nuova esistenza il profeta dell’anticapitalismo e dell’ambientalismo più radicale. Si fece prestare un’ascia. Fece diventare cenere i panni della prima vita.

    HENRY DAVID THOREAU 5

    henry david thoreau 5

    Si vestì di stracci, si fece regalare delle assi usate e dei chiodi già adoperati che raddrizzò uno a uno, abbatté dei pini, rinunciò a mangiare carne, a parte, saltuariamente, quella di marmotta, si cibò di portulaca oleracea, di polenta di granoturco e di fagioli e si costruì una capanna sulle rive del lago Walden. L’adozione di questa seconda pelle fu gravida di incredibili conseguenze per la sua storia personale ma anche e soprattutto più in generale per il corso della Storia con la maiuscola.

    HENRY DAVID THOREAU 9

    henry david thoreau 9

    «Lavoravo su un bel fianco di collina coperto di boschi di pini attraverso i quali potevo scorgere il lago dove il ghiaccio non s’ era ancora disciolto – raccontava -. Erano bei giorni di primavera, nei quali “l’inverno dell’umano scontento” si sgelava come la terra, e la vita incominciava a risvegliarsi».

    Cosa lo condusse a questa trasformazione? Allievo del filosofo trascendentalista Ralph Waldo Emerson, Thoreau intuì che con il primo capitalismo industriale e con l’esplosione di insediamenti urbani, con la costruzione di ponti, strade e fabbriche (visse per un anno anche a New York), fioriva un nuovo stile di vita orientato dal desiderio di frenetici guadagni.

    Che avevano come corollario la divisione del lavoro, lo spreco delle risorse naturali, il consumismo incontrollato e l’accumulazione fine a se stessa. «Andai nei boschi perché desideravo vivere con saggezza, per affrontare solo i fatti essenziali della vita (…) per non scoprire in punto di morte che non ero vissuto. (…) Volevo vivere profondamente e succhiare tutto il midollo della vita» (questa frase di Thoreau è stata ripresa ne L’attimo fuggente, il celebre film del 1989 con Robin Williams).

    HENRY DAVID THOREAU 7

    Ma l’atteggiamento rigorista che lo guidava nelle sue inedite opzioni ebbe anche altre conseguenze: l’eremita fu raggiunto da un’ingiunzione di pagamento di imposte arretrate nella sua casetta sulle rive del lago – a cui dedicherà, dopo averlo riscritto varie volte, il saggio Walden ovvero Vita nei boschi. Thoreau non accettò di versare i quattrini al governo del presidente James K. Polk che disprezzava in quanto fautore della schiavitù e di una politica espansionistica (stava iniziando la guerra messicano-americana al cui termine gli Stati Uniti ottennero il controllo di Texas, California, Nevada, Utah e di parti del Colorado, dell’Arizona, del Nuovo Messico e del Wyoming).

    HENRY DAVID THOREAU 2

    I

    henry david thoreau 2

    mprigionato, Thoreau fu scarcerato dopo un giorno per l’intervento di una zia che gli pagò, nonostante la sua opposizione, gli arretrati. Ma da questa esperienza nacque un celebre pamphlet, Disobbedienza civile, che gli diede una fama incredibile: fu il pensiero di riferimento per Tolstoj, Gandhi, Proust e Martin Luther King. Una settimana sui fiumi Concord e Merrimack, resoconto di un’escursione nelle White Mountains fatta con il fratello John nel 1839, fece di lui l’idolo della Beat Generation e di Jack Kerouac a cui ispirò Sulla strada.

    HENRY DAVID THOREAU 6

    Quando decise di ritornare a vivere nella civiltà, cominciò a viaggiare e divenne uno degli attivisti più convinti dell’abolizione della schiavitù, aiutò molti lavoratori delle piantagioni di cotone provenienti dall’Africa a fuggire in Canada e fu un sostenitore dei diritti dei nativi americani.

    I saggi e gli articoli della sua seconda vita, dopo la sua scomparsa, divennero la Bibbia di chi lottava per l’istituzione delle riserve naturali, dai boschi del Maine alla penisola di Cape Cod alle foreste dello Yosemite: il presidente Theodore Roosevelt fu un seguace di Thoreau come pure John Kennedy. Al pensatore ecologista fece riferimento lo scrittore Jon Krakauer che Nelle terre estreme (il libro è stato adattato a film da Sean Penn, Into the Wild – Nelle terre selvagge) pubblicò la storia di Christopher McCandless, giovanissimo viaggiatore che si lasciò morire di fame in nome di un rinnovato rapporto con l’ambiente.

    HENRY DAVID THOREAU 3

    henry david thoreau 3

    Critico accanito di Thoreau è invece il presidente Donald Trump che detesta la sua predicazione, le riserve e vuole riorganizzare le aeree protette degli States in zone di caccia. Oggi le profetiche parole di Thoreau sulla necessità della tutela della «natura selvaggia» vengono continuamente evocate da chi considera la pandemia come una conseguenza della distruzione degli equilibri naturali. La seconda vita di Thoreau non rappresentò dunque solo uno sconvolgimento intimo e personale del filosofo ma fu lo sprigionarsi di un vento forte che ha cambiato il corso della storia.

  • Umberto Eco – Come dire parolacce in società

    Brani scelti: UMBERTO ECO, La bustina di minerva 2000

    Vedo nel nuovo romanzo di Kurt Vonnegut (Hocus pocus, Bompiani) che il protagonista decide di non usare parolacce e si limita a espressioni che (nella traduzione di Pier Francesco Paolini) suonano come: “che pezzo di escremento!”, “che testa di pene!”, “siamo in una bella casa di tolleranza!” L’invito giunge opportuno in un momento in cui i giornali registrano, da parte degli uomini politici, insulti da carrettiere, e sui teleschermi si affacciano signori distinti che si appellano a vicenda con riferimenti espliciti a parti del corpo solitamente coperte da biancheria detta, appunto, intima.

    È vero che in questa stessa rubrica io avevo tempo fa rivendicato il diritto di usare la parola stronzo in certe occasioni in cui occorre esprimere il massimo sdegno. Ma l’utilità della parolaccia è appunto data dalla sua eccezionalità. Usare parolacce troppo sovente sarebbe come riscrivere l’intero Signor Bruschino facendo battere soltanto gli archetti contro i leggii, mentre gli altri strumenti tacciono. Mussolini, in un momento tragico della storia d’Italia, disse in parlamento che avrebbe potuto fare di quell’aula sorda e grigia un bivacco per i suoi manipoli, e la frase suonò drammaticamente minacciosa. Se avesse detto (e tale era il senso della sua dichiarazione) “brutte facce di merda, avrei potuto mettervela in culo come niente,” o l’avrebbero trattato come un buffo, o si sarebbero accorti che il condizionale era fuori luogo, perché l’evento si era già verificato.

    Si è perduta quell’arte dell’ingiuria celebrata da Borges (“Signore, vostra moglie, col pretesto di tenere un bordello, vende stoffe di contrabbando!”), e pazienza. Ma almeno si dovrebbe ritrovare un’arte della perifrasi. Ed ecco perché, a uso dei protagonisti della politica e dello spettacolo, seguono alcune espressioni indubbiamente eleganti e forbite, sotto il velame della cui elaborata stranezza gli esperti potranno riconoscere l’espressione originaria, ben più volgare e consueta, che esse celano, senza peraltro eliminarne la forza perlocutoria.

    “Taccia, Lei, il cui viso avrebbe potuto essere definito da un noto maresciallo dell’Impero nelle ultime ore della battaglia di Waterloo!” “Ella ha una scatola cranica che più che alla speculazione sarebbe atta alla riproduzione.” “La invito a recarsi là dove potrebbe opportunamente qualificarsi come partner passivo di un rapporto tra maschi adulti consenzienti!” “La smetta, o segmento fusiforme del prodotto finale di un complesso processo metabolico!” “Il tale, nel suo giorno natale, era unito da cordone ombelicale a una signora che aveva saputo condurre la poliandria a manifestazioni quasi frenetiche.”

    “Verga sicula, che gran bella porzione di ghiandole di Bartolino e tube di Falloppio!” “Quello? Dalla paura è pronto a secernere preterintenzionalmente, e senza aver prima abbandonato i propri abiti, cellulosa, cheratina, residui biliari, muco, cellule epiteliali desquamate, leucociti e batteri assortiti!” “Gustavo è solo un cinquanta per cento di deliquio dei sensi ottenuto manualmente.” “Silenzio, non imitate un luogo in cui si faccia mercimonio di grazie della seconda metà del cielo!” “Indigenza scrofa, l’ho ricevuta in vaso indebito!” “La prego, non mi deteriori quelli che l’etimologia latina vuole quali testimoni!” “Come dice Dante, usava la parte terminale dell’intestino retto come strumento per segnalazioni militari.” “Ragazzí, che operazione serramentaria!””La baronessa? Ma si dedica alla raccolta e accumulazione di gettoni che testimoniano della sua operosità e a fronte dei quali riceverà un corrispettivo in denaro allo scadere della seconda settimana di attività!” “Guardi, io di Lei e della sua opinione sottopongo a ripetute succussioni l’unica borsa in pelle fornitami da natura, con tutto ciò che essa contiene!” “Ma la smetta di adularmi! Lei è un soggetto le cui papille gustative hanno perduto ogni dimestichezza con il cibo prima che esso abbia subito tutte le trasformazioni a cui viene sottoposto dal nostro organismo onde far fronte alla curva generale dell’entropia!” “Se non la smette sono disposto a interfacciare la parte inferiore delle mie Timberland con la sua zona perineale, imprimendo all’intero suo corpo una forza propulsiva atta a farle percorrere un ampio tragitto senza che Ella debba ricorrere ai consueti mezzi di deambulazione!” “Ha tutta la mia riprovazione, o persona la cui parte posteriore inferiore del tronco necessiterebbe di un intervento plastico a fini di restauro!” “Organo esterno dell’apparato genito-urinario maschile a forma di appendice cilindrica inserita nella parte anteriore del perineo! Ho perso il portafoglio!”

  • Richard Bach – E crescendo impari…

    Richard Bach – E crescendo impari…

    E crescendo impari che la felicità non è quella delle grandi cose.
    Non è quella che si insegue a vent’anni, quando, come gladiatori si combatte il mondo per uscirne vittoriosi…
    La felicità non è quella che affannosamente si insegue credendo che l’amore sia tutto o niente,…
    non è quella delle emozioni forti che fanno il “botto” e che esplodono fuori con tuoni spettacolari…
    la felicità non è quella di grattacieli da scalare, di sfide da vincere mettendosi continuamente alla prova.
    Crescendo impari che la felicità è fatta di cose piccole ma preziose…
    … e impari che il profumo del caffè al mattino è un piccolo rituale di felicità, che bastano le note di una canzone, le sensazioni di un libro dai colori che scaldano il cuore, che bastano gli aromi di una cucina, la poesia dei pittori della felicità, che basta il muso del tuo gatto o del tuo cane per sentire una felicità lieve.
    E impari che la felicità è fatta di emozioni in punta di piedi, di piccole esplosioni che in sordina allargano il cuore, che le stelle ti possono commuovere e il sole far brillare gli occhi, e impari che un campo di girasoli sa illuminarti il volto, che il profumo della primavera ti sveglia dall’inverno, e che sederti a leggere all’ombra di un albero rilassa e libera i pensieri.

    E impari che l’amore è fatto di sensazioni delicate, di piccole scintille allo stomaco, di presenze vicine anche se lontane, e impari che il tempo si dilata e che quei 5 minuti sono preziosi e lunghi più di tante ore,
    e impari che basta chiudere gli occhi, accendere i sensi, sfornellare in cucina, leggere una poesia, scrivere su un libro o guardare una foto per annullare il tempo e le distanze ed essere con chi ami.

    E impari che sentire una voce al telefono, ricevere un messaggio inaspettato, sono piccolo attimi felici.
    E impari ad avere, nel cassetto e nel cuore, sogni piccoli ma preziosi.

    E impari che tenere in braccio un bimbo è una deliziosa felicità.
    E impari che i regali più grandi sono quelli che parlano delle persone che ami…
    e impari che c’è felicità anche in quella urgenza di scrivere su un foglio i tuoi pensieri, che c’è qualcosa di amaramente felice anche nella malinconia.

    E impari che nonostante le tue difese,
    nonostante il tuo volere o il tuo destino,
    in ogni gabbiano che vola c’è nel cuore un piccolo-grande
    Jonathan Livingston.
    E impari quanto sia bella e grandiosa la semplicità.

    dal libro “Il gabbiano Jonathan Livingston” di Richard Bach

  • Almeno 80 libri la biblioteca perfetta dei sedicenni

    Uno studio australiano collega il numero di volumi che si hanno in casa da ragazzi alle prestazioni da adulti.

    GIULIANO ALUFFI

    Avere, da adolescenti, uno scaffale domestico ben fornito di libri dà una marcia in più nella vita: i ragazzi che hanno avuto almeno 80 libri in casa oggi hanno competenze linguistiche, matematiche e tecnologiche superiori alla media. Lo suggerisce uno studio, pubblicato su Social Science Research, che riguarda 160 mila adulti da 31 nazioni, con dati raccolti dal Programme for the International Assessment of Adult Competencies dell’Ocse. «Nel 2010 avevamo visto, con dati da 27 Paesi, che crescere in una casa fornita di libri aiuta i giovani ad avere tre anni in più di studi rispetto a chi cresce senza libri, indipendentemente dalla cultura e classe sociale dei genitori. In un secondo studio abbiamo visto che, indipendentemente dall’istruzione scolastica, chi cresce in un ambiente domestico ricco di libri, avrà un lavoro più remunerato» spiega la prima autrice dello studio, Joanna Sikora, sociologa dell’Australian National University di Canberra. «Rimaneva da verificare l’effetto del crescere tra i libri sulle competenze in età adulta: l’abbiamo trovato, con risultati del tutto simili tra i vari Paesi». Lo scaffale domestico, secondo lo studio, non aiuta soltanto ad acquisire abilità cognitive aggiuntive rispetto a quelle fornite dalla scuola, ma anche a sviluppare una passione che dura per tutta la vita. «Non è importante soltanto l’atto del leggere, ma anche apprezzare i libri come oggetti, discuterne in famiglia o con gli amici, e soprattutto identificarsi nella lettura: pensare a sé stessi come persone che amano i libri». È una sorta di “imprinting” con i libri, che deve avvenire preferibilmente nel periodo della vita in cui si decide chi si è e chi si vuole essere. «Sappiamo che chi ha molti libri in casa avrà maggiori probabilità di leggere saggi, in particolare di divulgazione scientifica, narrativa e poesia» spiega Sikora. «Ma in realtà qualsiasi tipo di coinvolgimento con il libro è utile per aumentare il proprio vocabolario e le proprie abilità cognitive. C’è anche un aspetto di scelte future legate all’identità personale: se ti vedi come un amante dei libri, ciò ti porterà a preferire, nella vita, certe attività rispetto ad altre: nel tuo stile di vita includerai il piacere e lo stimolo intellettuale della lettura». Anche al di là della formazione istituzionale: «I dati raccolti ci dicono che chi non è riuscito ad andare all’università, se ha avuto una quantità sufficiente di libri in casa a sedici anni, da adulto non sarà meno competente di un laureato che ha avuto pochi libri attorno a sé da ragazzo». Lo studio riguarda chi è stato adolescente tra il 1950 e il 1995, quando il libro esisteva in sola forma cartacea. Avremo lo stesso effetto positivo anche per generazioni di nativi digitali «È vero che oggi gli adolescenti consultano una pluralità di media diversi, con una preferenza per lo smartphone», ammette la sociologa australiana, «ma credo che continuerà a esserci una differenza di competenze e di opportunità tra chi cresce in mezzo a libri cartacei e gli altri».

  • Immaginate una scuola.

    Immaginate una scuola.

    Francesco Brescia

    Immaginate una scuola.

    La UE è una classe.
    Una classe nella quale ognuno fa quello che vuole. L’unico professore temuto è quello di economia, soprattutto quando chiede le quote per la gita. Gli altri professori parlano, parlano, ma in fondo nessuno li ascolta. Però i ragazzi tornano a casa e chiedono sempre ai genitori “dobbiamo portare i soldi per la lavagna multimediale, ce lo chiede la scuola. Dobbiamo portare i soldi per l’uscita didattica, ce lo chiede la scuola”.
    Il materiale per studiare costa tantissimo, nella classe della UE. E lo custodisce la Germania, che è la prima della classe in queste cose di cancelleria.
    L’Italia se ne sta un po’ per i fatti suoi, nella classe della UE.
    Non se la passa tanto bene, a casa.
    Ha dei nuovi genitori adottivi, che faticano a comprendersi e a mettersi d’accordo. Un po’ perché sono troppo diversi tra loro, un po’ perché c’è di mezzo il nonno, un uomo vecchio, col parrucchino, basso e rattuso che rompe continuamente il cazzo e ogni tanto si mette a contare con le dita, fa le corna e vuole parlare delle cose del passato. Il nonno tra l’altro dovrebbe pure stare in galera, per questioni di nipotine, ma nessuno ha capito perché giri ancora a piede libero.
    Italia ha il banco vicino alla porta della classe. Ogni giorno un sacco di bambini delle altre classi vogliono entrare, e spintonano Italia, la sbattono di qua e di là, e Italia li farebbe anche entrare, ma il banchetto è piccolo e la sediolina non regge tutti.
    Certo, meglio di Grecia, che la sediolina non ce l’ha nemmeno più e se ne sta seduta per terra, in un angolo della classe della UE.
    Poi c’è Francia.
    Quanto mi sta sul cazzo Francia.
    Francia fa quello che vuole, ha dei libri specifici che usa solo lei, e vorrebbe decidere pure il programma di studi. Francia pure sta vicino alla porta, ma lei non fa sedere nessuno.
    Francia è amica di quello che se ne è andato via dalla scuola, Gran Bretagna.
    Gran Bretagna fa quello fico, ma solo perché sa di avere le spalle coperte da suo cugino. Suo cugino ogni tanto arriva, sagnellone, alto, grosso, sempre prepotente e violento, e rompe il cazzo a tutti.
    Il cugino bullo di Gran Bretagna si chiama Stati Uniti.
    Non ci va nemmeno più a scuola, questo.
    Quando arriva Stati Uniti, tutti stanno zitti.
    Gran Bretagna lo affianca, e dalla classe della UE si stacca e li accompagna sempre Francia. E i tre vanno a rompere i coglioni in altre classi.
    Soprattutto nella classe Medioriente.
    Quanto rompono i coglioni a Medioriente questi tre.
    Quella classe già è un casinò da anni per colpa della professoressa di religione, che cambia sempre programma e li fa litigare.
    Litigano, non fanno altro.
    Però hanno spesso delle aule più soleggiate di quelle degli altri, e allora Stati Uniti va, ogni tanto, e se la prende con qualcuno di loro. Così.
    Come se non bastassero i problemi.
    Tanto il preside ONU dorme. Lui beve, chatta con le cinquantenni fake, si fa le pippe e dorme.
    Tempo fa Iraq sputava con la cerbottana a Kuwait. Stati Uniti arrivò e distrusse lo zaino di Iraq. Poi il banco. Poi il femore. Poi la faccia. Iraq sta là, in classe, ma non si è ripreso e sanguina ancora.
    Un’altra volta Stati Uniti decise di entrare nella classe Nordafrica, per spezzare il braccio di Libia. Francia era tutta contenta. Italia no, ma si accodò lo stesso.
    Il banco di Libia è ancora in fiamme.
    E adesso Stati Uniti vogliono il motorino di Siria.
    Madonna, quanto vogliono quel motorino.
    E sopra al motorino di Siria ci vogliono fare un giro pure Francia e Gran Bretagna.
    Ma Siria è pure amica dei bulli di altre classi, soprattutto Russia, che è un altro che vi raccomando, e Turchia.
    Turchia ha il professore di sostegno, perché è irrequieto e tutti hanno paura di come reagisce.
    E pure loro, Russia e Turchia, vorrebbero farsi un giro sullo stesso motorino di Siria.
    Ma Stati Uniti se ne fotte.
    Quando vuole una cosa, Stati Uniti non si tiene.
    E appresso ci stanno sempre Gran Bretagna, che pure a scuola non ci vuole andare più da un paio d’anni, e non si sa cosa voglia fare da grande. E Francia, che non ho capito cosa ci rimanga a fare nella classe della UE, visto che decide sempre da sola e non sta mai a sentire gli altri.
    Soprattutto nessuno ascolta Italia, che poi si ritroverà attorno alla sedia un sacco di studenti che vorranno andare via dalle altri classi, perché Stati Uniti e gli altri bulli quando vogliono una cosa non si tengono.
    Molti ci dicono che dobbiamo essere riconoscenti a Stati Uniti e che, se non fosse stato per lui, la classe UE tanti anni fa non avrebbe potuto avere fondamenta, mura e finestre.
    Probabile.
    Ma dopo 70 anni, direi che il debito con il bullo sia stato abbondantemente pagato.
    Con gli interessi.
    Alle volte penso che in quella scuola chi stia meglio di tutti è il bidello.
    Quello fa il saggio, ha un sacco di figli, e se ne sta spaparanzato a leggere il giornale e fumare, mentre tutto intorno le classi fanno un casino infernale.
    Il bidello è l’India. Con tutto quello che succede nella scuola, qualche anno fa ha deciso di avere una discussione proprio con Italia.
    Strano proprio, il bidello.

    La classe della UE nemmeno quest’anno finirà il programma di studi, per colpa sua e per quello che succede nelle altre classi, anche quelle del piano di sotto, come Estremo Oriente, Sudamerica, o Centrafrica.
    Ma tanto, nella classe della UE, per i professori l’importante è solo che ogni anno tutti versino la quota della gita, poi ognuno può fare quello che gli pare.

    E alla fine, come sempre, nessuno imparerà mai nulla.

  • In memoria di Marco Pannella

    In memoria di Marco Pannella

    il-martire-della-casta-marco-pannella-L-UH7jMq

    Marco Pannella è morto questa mattina, dopo mesi di battaglia contro il cancro. Le sue condizioni si erano aggravate ieri, quando era stato ricoverato in una clinica romana. Nato a Teramo nel 1930, con la sua scomparsa se ne va il principale protagonista dell’avvio di tante battaglie per i diritti civili, dal divorzio, all’aborto, all’eutanasia, passando ovviamente per la sua battaglia campale: quella per la legalizzazione della cannabis.

    Le battaglie antiproibizioniste di Pannella cominicarono già all’alba degli anni settanta. Nel gennaio del 1973 con una lettera al quotidiano Il Messaggero condannò il clima di criminalizzazione verso i giovani “capelloni” che fumavano gli spinelli e lanciò le prime riflessioni sulla necessità di depenalizzare il consumo.

    Nel 1975 diede invece inizio alla sua lunga campagna delle “disobbedienze civili”. Il 2 luglio 1975 Pannella viene arrestato dopo aver fumato deliberatamente marijuana in pubblico. In carcere, Pannella rifiuta di chiedere la libertà provvisoria fino a che non riceve, dai Presidenti della Camera e del Senato, l’impegno e la garanzia a discutere e mettere in votazione, entro 4 mesi, la legge di riforma sulle droghe. Cosa che effettivamente avvenne, portando, nel 1976, alla prima riforma che rende non più condannabile al carcere il semplice consumatore di droghe leggere.

    La battaglia non si ferma. Nel 1980 il Partito Radicale raccoglie oltre 500.000 firme su di un referendum per la legalizzazione delle droghe leggere; il referendum avrebbe dovuto tenersi nella primavera del 1981, ma nel gennaio di quell’anno la Corte costituzionale lo giudica inammissibile.

    La battaglia di Pannella contro la criminalizzazione dei consumatori di cannabis riprende nel 1990, quando viene approvata la legge, voluta dall’allora presidente del Consiglio Bettino Craxi, che reintroduce il reato di consumo di droga. Alla fine del 1991 promuove un referendum per l’abolizione delle sanzioni penali per il consumo di droga e per il riconoscimento della libertà terapeutica nella cura delle dipendenze, il referendum svoltosi nel 1993 viene vinto con il 52% circa dei voti a favore: il consumo di droga torna ad essere depenalizzato.

    Nel 1995, il rilancio della campagna per la legalizzazione delle droghe leggere viene di nuovo affidata ad iniziative di disobbedienza civile, durante le quali viene distribuito gratuitamente e pubblicamente hashish in varie manifestazioni pubbliche.

    Il 27 agosto di quell’anno Pannella regala hashish durante una manifestazione a Porta Portese e il 18 dicembre ripete la consegna gratuita in piazza Navona. Per questi due fatti verrà poi condannato rispettivamente a 8 mesi di libertà vigilata e a due mesi e otto giorni di carcere (questa seconda condanna annullata successivamente).

    Lo stesso giorno della manifestazione in piazza Navona, mentre i giudici lo condannano, Pannella, ospite al programma tv “l’Italia in diretta” regala circa 200 grammi di fumo alla conduttrice Alda D’Eusanio. Una scena diventata epica anche per la reazione della conduttrice che si mette a gridare “ragazzi questa è morte, stateci lontani”.

    Nel gennaio 1996, vengono depositate oltre 500.000 firme in calce ad un referendum per la legalizzazione delle droghe leggere ed un anno dopo la Corte Costituzionale lo dichiara inammissibile, motivando la sentenza con il vincolo costituito dalle convenzioni internazionali, che vieterebbero l’adozione di queste politiche di legalizzazione.

    La battaglia di Marco Pannella per la legalizzazione delle droghe leggere continua anche nel nuovo millennio, spesso collegata a quelle contro il sovraffollamento delle carceri. Una battaglia che negli ultimi anni si è legata sempre di più a quelle per il diritto alla cura dei malati, con le azioni di disobbedienza civile per la cannabis terapeutica condotte da Rita Bernardini, attuale segretaria dei Radicali.

    Negli anni molti movimenti antiproibizionisti si sono allontanati dai Radicali e dai metodi di lotta di Pannella, spesso giudicati troppo improntati alla spettacolarizzazione. Ciò che rimane tuttavia innegabile è che con Marco Pannella se ne va una figura cardine delle battaglie per i diritti civili in Italia. Un politico che per anni ha condotto in solitudine e con ammirevole coraggio intellettuale una battaglia che allora era di estrema minoranza, contribuendo per primo a rendere quello della legalizzazione un tema non più tabù, ma un tema del quale si poteva, e si doveva, parlare.

  • Il manifesto della guerriglia Open Access

    Il manifesto della guerriglia Open Access

    di Aaron Swartz

    Questo testo è la versione italiana del Guerrilla Open Access Manifesto, scritto da Aaron Swartz nel 2008, mentre partecipava ad una conferenza sulla comunicazione scientifica svoltasi in un non ben precisato eremo toscano. Dopo la sua morte nel 2013, ci siamo messi a tradurlo collaborativamente. C’erano Enrico Francese, Silvia Franchini, Marco Solieri, elle di ci, Andrea Raimondi, Luca Corsato, e altri contributori anonimi e generosi. Lo ripubblico qui, perchè è giusto che lo leggano più persone possibile.


    L’informazione è potere. Ma come con ogni tipo di potere, ci sono quelli che se ne vogliono impadronire. L’intero patrimonio scientifico e culturale, pubblicato nel corso dei secoli in libri e riviste, è sempre più digitalizzato e tenuto sotto chiave da una manciata di società private. Vuoi leggere le riviste che ospitano i più famosi risultati scientifici? Dovrai pagare enormi somme ad editori come Reed Elsevier.

    C’è chi lotta per cambiare tutto questo. Il movimento Open Access ha combattuto valorosamente perché gli scienziati non cedano i loro diritti d’autore e pubblichino invece su Internet, a condizioni che consentano l’accesso a tutti. Ma anche nella migliore delle ipotesi, il loro lavoro varrà solo per le cose pubblicate in futuro. Tutto ciò che è stato pubblicato fino ad oggi sarà perduto.

    Questo è un prezzo troppo alto da pagare. Forzare i ricercatori a pagare per leggere il lavoro dei loro colleghi? Scansionare intere biblioteche, ma consentire solo alla gente che lavora per Google di leggerne i libri? Fornire articoli scientifici alle università d’élite del Primo Mondo, ma non ai bambini del Sud del Mondo? Tutto ciò è oltraggioso ed inaccettabile.

    “Sono d’accordo,” dicono in molti, “ma cosa possiamo fare? Le società detengono i diritti d’autore, guadagnano enormi somme di denaro facendo pagare l’accesso, ed è tutto perfettamente legale — non c’è niente che possiamo fare per fermarli”. Ma qualcosa che possiamo fare c’è, qualcosa che è già stato fatto: possiamo contrattaccare.

    Tutti voi, che avete accesso a queste risorse, studenti, bibliotecari o scienziati, avete ricevuto un privilegio: potete nutrirvi al banchetto della conoscenza mentre il resto del mondo rimane chiuso fuori. Ma non dovete — anzi, moralmente, non potete — conservare questo privilegio solo per voi, avete il dovere di condividerlo con il mondo. Avete il dovere di scambiare le password con i colleghi e scaricare gli articoli per gli amici.

    Tutti voi che siete stati chiusi fuori non starete a guardare, nel frattempo. Vi intrufolerete attraverso i buchi, scavalcherete le recinzioni, e libererete le informazioni che gli editori hanno chiuso e le condividerete con i vostri amici.

    Ma tutte queste azioni sono condotte nella clandestinità oscura e nascosta. Sono chiamate “furto” o “pirateria”, come se condividere conoscenza fosse l’equivalente morale di saccheggiare una nave ed assassinarne l’equipaggio, ma condividere non è immorale — è un imperativo morale. Solo chi fosse accecato dall’avidità rifiuterebbe di concedere una copia ad un amico.

    E le grandi multinazionali, ovviamente, sono accecate dall’avidità. Le stesse leggi a cui sono sottoposte richiedono che siano accecate dall’avidità — se così non fosse i loro azionisti si rivolterebbero. E i politici, corrotti dalle grandi aziende, le supportano approvando leggi che danno loro il potere esclusivo di decidere chi può fare copie.

    Non c’è giustizia nel rispettare leggi ingiuste. È tempo di uscire allo scoperto e, nella grande tradizione della disobbedienza civile, dichiarare la nostra opposizione a questo furto privato della cultura pubblica.

    Dobbiamo acquisire le informazioni, ovunque siano archiviate, farne copie e condividerle con il mondo. Dobbiamo prendere ciò che è fuori dal diritto d’autore e caricarlo su Internet Archive. Dobbiamo acquistare banche dati segrete e metterle sul web. Dobbiamo scaricare riviste scientifiche e caricarle sulle reti di condivisione. Dobbiamo lottare per la Guerrilla Open Access.

    Se in tutto il mondo saremo in numero sufficiente, non solo manderemo un forte messaggio contro la privatizzazione della conoscenza, ma la renderemo un ricordo del passato.

    Vuoi essere dei nostri?

    Aaron Swartz
    Luglio 2008, Eremo, Italia

  • Ma quante belle prospettive per i nuovi fascisti !

    Ma quante belle prospettive per i nuovi fascisti !

    L’Austria è un Paese piccolo e domenica hanno votato meno di 4 milioni di persone, di cui un milione e 300 mila per Norbert Hofer, il candidato nazionalista e identitarista. Poca roba: quindi, in teoria, su di lui potremmo fare spallucce.
    Su di lui così come sul fatto che negli Stati Uniti il candidato alla presidenza dei Repubblicani sia Donald Trump. O che in Francia aumentano ogni giorno le probabilità che la Le Pen arrivi almeno al ballottaggio. O (anche) che in Italia la destra ex berlusconiana sia sempre più rappresentata dal duo Salvini-Meloni. Per non dire di tutti gli altri movimenti populisti (In Italia il M5S)  , in crescita in quasi tutta Europa.

    Se invece pensiamo che il fenomeno ci riguardi, dopo l’anatema potremmo anche cercare di capire perché tanta gente vota da quelle parti. Magari aiutandoci dando un’occhiata ai grandi cambiamenti tecnologici ed economici contemporanei, quelli che stanno dietro quest’ondata. E con qualche riferimento storico.
    Tra la fine del ‘700 e l’inizio dell’800, ad esempio, scoppiò in Inghilterra quel fenomeno che passa sotto il nome di luddismo, dal mitico Ned Ludd: personaggio forse neppure esistito, ma a cui veniva attribuita la prima distruzione di un telaio meccanico. È possibile che Ludd fosse uno degli artigiani che nel 1770 avevano preso d’assalto la casa e le macchine di James Hargreaves, il tizio che aveva inventato lo “spinning jenny”: quel dispositivo a pedale che consentiva a un singolo operatore di filare otto fili per volta. Il telaio meccanico, appunto.
    L’introduzione di strumenti industriali in quel periodo stava trasformando radicalmente e abbastanza in fretta l’organizzazione del lavoro precedente. In particolare i tessitori del Lancashire vedevano crollare i prezzi dei loro prodotti e quindi avevano solo la chance di trasformarsi in operai (a bassissimo reddito e in condizioni di lavoro disumane) mettendosi al servizio proprio dei nuovi telai, cioè gli stessi che ne avevano causato la proletarizzazione. Abbastanza normale che volessero distruggerli a randellate.
    Quello che sta succedendo nel mondo all’inizio del XXI è un fenomeno di portata anche maggiore rispetto all’introduzione dei telai meccanici e delle macchine a vapore. E ha ragioni di fondo tecnologiche ed economiche.

    Mai come adesso assistiamo a un mutamento rapido delle relazioni di produzione, lavoro rarefatto e parcellizzato, voucher, piattaforme di manodopera liquida, a cottimo o all’ora.
    Ma le trasformazioni tecnologiche di oggi sono anche quelle che costringono ogni singolo produttore di qualsiasi cosa, nel pianeta, a concorrere con qualsiasi altro produttore della stessa cosa nel resto del pianeta. E quelle che hanno consentito le esternalizzazioni delle produzioni nei Paesi in cui il lavoro orario costa molto meno.
    O semplicemente, pensate ad altri e più banali cambiamenti tecnologici: quelli che, con i satelliti e Internet, hanno portato l’Occidente nelle case di un miliardo di africani, creando quindi il desiderio-bisogno di lasciare il proprio villaggio di fango e capre per venire qui da noi.
    E occhio perché ancora più “disruptive” saranno le trasformazioni che ci aspettano: l’intelligenza artificiale è ancora nella sua età infantile, rispetto all’incidenza che porterà nelle relazioni produttive nei prossimi due o tre decenni. La sharing economy anche. E forse nessuno ha davvero idea dell’impatto sulla produzione della stampa in 3D, oggi vista dai più come un’eccentrica curiosità, ma che invece è un altro pezzo della nuova rivoluzione industriale.
    Spiegava qualche giorno fa Bernard Guetta (vedi articolo allegato infondo al post), proprio parlando dell’ascesa dei parafascismi in Europa e Usa, che oggi «ai salariati non resta che scegliere tra il persistere di elevati tassi di disoccupazione e l’accettazione di un’ininterrotta erosione dei diritti acquisiti». Sicché «sulle due sponde dell’Atlantico si è venuta a creare un’enorme angoscia sociale, terreno fertile per Trump e le estreme destre europee». E sia Trump sia Marine Le Pen, i vari Grillo e Salvini, sia i loro analoghi «propongono di tornare al protezionismo, vedono nei Paesi emergenti il nemico, sono ostili verso l’immigrazione. Tutti, in sintesi, provano nostalgia per i tempi in cui l’Occidente era formato da Stati forti, che non soffrivano la concorrenza di Paesi dalle tutele sociali inesistenti»
    Già. Perché a fronte dei cambiamenti contemporanei e in arrivo, ci si può comportare in due modi.
    Il primo è appunto quello che vediamo ogni giorno nei discorsi di Trump o Salvini: metaforicamente, prendere a randellate i telai meccanici. Cioè, oggi, immaginare o creare muri, rinfocolare identità nazionali. Nostalgia, come dice Guetta.
    Il secondo è capire invece che i nuovi telai meccanici invece sono qui per restare, ci piaccia o no: e quindi rivolgere ogni sforzo per rovesciare il modo in cui vengono gestiti e usati oggi dai poteri economici e politici. Cioè nell’interesse di pochissimi, per accumulare e accentrare capitale.
    Proprio come 200 anni fa, del resto.
    A proposito: i luddisti erano probabilmente ingenui, ma non così stupidi da non capire — dopo i primi anni di rabbia accecata — che il problema stava soprattutto nelle condizioni di lavoro e di vita a cui erano costretti dai proprietari dei nuovi telai. «Fate che i superbi cessino di opprimere gli umili e Ludd rinfodererà la spada», diceva una canzone luddista diffusa in Inghilterra al tempo. La loro inutile rivolta sarebbe quindi finita se le cose per loro fossero migliorate: in termini di orari, reddito, oppressione dagli “umili” da parte dei “superbi”.

    Il compito che abbiamo oggi, certo, è spiegarlo a chi vota Grillo, Trump, o Salvini, o Le Pen o Norbert Hofer.
    Ma soprattutto è spiegarlo ai superbi di oggi, che di tutto questo sono la causa vera.

    Il futuro roseo del nuovo fascismo

    Non dobbiamo cadere preda della paura sbagliata: di Donald Trump non preoccupa il fatto che possa conquistare l’investitura repubblicana, perché sarebbe molto improbabile per lui riuscire a insediarsi alla Casa Bianca. Negli Stati Uniti gli elettori “indipendenti” – quelli decisivi di centro – non voteranno per lui, perché sono tutto salvo che estremisti.

  • Il fascismo eterno (Umberto Eco)

    Il fascismo eterno (Umberto Eco)

     

    Nel 1942, all’età di dieci anni, vinsi il primo premio ai Ludi Juveniles (un concorso a libera partecipazione coatta per giovani fascisti italiani – vale a dire, per tutti i giovani italiani). Avevo elaborato con virtuosismo retorico sul tema: “Dobbiamo noi morire per la gloria di Mussolini e il destino immortale dell’Italia?” La mia risposta era stata affermativa. Ero un ragazzo sveglio. Poi nel 1943 scopersi il significato della parola “libertà”. Racconterò questa storia alla fine del mio discorso. In quel momento “libertà” non significava ancora `liberazione”. Ho passato due dei miei primi anni tra SS, fascisti e partigiani, che si sparavano l’un l’altro, e ho imparato come scansare le pallottole. Non è stato male come esercizio. Nell’aprile del 1945 i partigiani presero Milano. Due giorni dopo arrivarono nella piccola città dove vivevo. Fu un momento di gioia. La piazza principale era affollata di gente che cantava e sventolava bandiere, invocando a gran voce Mimo, il capo partigiano della zona. Mimo, ex maresciallo dei carabinieri, si era messo coi badogliani e aveva perso una gamba in uno dei primi scontri. Si fece vedere al balcone del comune, appoggiato alle sue stampelle, pallido; cercò con una mano di calmare la folla. Io ero lì che aspettavo il suo discorso, visto che tutta la mia infanzia era stata segnata dai grandi discorsi storici di Mussolini, di cui a scuola imparavamo a memoria i passi più significativi. Silenzio. Mimo parlò con voce rauca, quasi non si sentiva. Disse: “Cittadini, amici. Dopo tanti dolorosi sacrifici… eccoci qui. Gloria ai caduti per la libertà.” Fu tutto. E tornò dentro. La folla gridava, i partigiani alzarono le loro armi e spararono in aria festosamente. Noi ragazzi ci precipitammo a raccogliere i bossoli, preziosi oggetti da collezione, ma avevo anche imparato che la libertà di parola significa libertà dalla retorica. Alcuni giorni dopo vidi i primi soldati americani. Erano afro-americani. Il primo yankee che incontrai era un nero, Joseph, che mi fece conoscere le meraviglie di Dick Tracy e di Li’ Abner. I suoi fumetti erano a colori e avevano un buon odore. Uno degli ufficiali (il maggiore o capitano Muddy) era ospite nella villa della famiglia di due mie compagne di scuola. Ero a casa mia in quel giardino dove alcune signore facevano crocchio intorno al capitano Muddy, parlando un francese approssimativo. Il capitano Muddy aveva una buona educazione superiore e conosceva un po’ di francese. Così, la mia prima immagine dei liberatori americani, dopo tanti visi pallidi in camicia nera, fu quella di un nero colto in uniforme giallo-verde che diceva: “Oui, merci beaucoup Madame, moi aussi j’aime le champagne…” Sfortunatamente mancava lo champagne, ma dal capitano Muddy ebbi il mio primo chewing-gum e cominciai a masticare tutto il giorno. Di notte mettevo la cicca in un bicchiere d’acqua, per tenerla in fresco per il giorno dopo. In maggio, sentimmo dire che la guerra era finita. La pace mi diede una sensazione curiosa. Mi era stato detto che la guerra permanente era la condizione normale per un giovane italiano. Nei mesi successivi scoprii che la Resistenza non era solo un fenomeno locale, ma europeo. Imparai nuove, eccitanti parole come “reseau”; “maquis”, “armée secrete”, “Rote Kapelle” “ghetto di Varsavia”. Vidi le prime fotografie dell’Olocausto, e ne compresi così il significato prima di conoscere la parola. Mi resi conto da che cosa eravamo stati liberati. In Italia vi sono oggi alcuni che si domandano se la Resistenza abbia avuto un reale impatto militare sul corso della guerra. Per la mia generazione la questione è irrilevante: comprendemmo immediatamente il significato morale e psicologico della Resistenza. Era motivo d’orgoglio sapere che noi europei non avevamo atteso la liberazione passivamente. Penso che anche per i giovani americani che versavano il loro tributo di sangue alla nostra libertà non era irrilevante sapere che dietro le linee c’erano europei che stavano già pagando il loro debito. In Italia c’è oggi qualcuno che dice che il mito della Resistenza era una bugia comunista. E’ vero che i comunisti hanno sfruttato la Resistenza come una proprietà personale, dal momento che vi ebbero un ruolo primario; ma io ricordo partigiani con fazzoletti di diversi colori. Appiccicato alla radio, passavo le mie notti – le finestre chiuse, e l’oscuramento generale che faceva del piccolo spazio intorno all’apparecchio l’unico alone luminoso – ascoltando i messaggi che Radio Londra trasmetteva ai partigiani. Erano al tempo stesso oscuri e poetici (“Il sole sorge ancora”, “Le rose fioriranno”), e la maggior parte erano “messaggi per la Franchi”. Qualcuno mi bisbigliò che Franchi era il capo di uno dei gruppi clandestini più potenti dell’Italia del Nord, un uomo dal coraggio leggendario. Franchi divenne il mio eroe. Franchi (il cui vero nome era Edgardo Sogno) era un monarchico, così anticomunista che dopo la guerra si unì a gruppi di estrema destra, e venne anche accusato di aver collaborato a un colpo di stato reazionario. Ma che importa? Sogno rimane ancora il sogno della mia infanzia. La liberazione fu un’impresa comune per gente di diverso colore. In Italia c’è oggi qualcuno che dice che la guerra di liberazione fu un tragico periodo di divisione, e che abbiamo ora bisogno di una riconciliazione nazionale. Il ricordo di quegli anni terribili dovrebbe venire represso. Ma la repressione provoca nevrosi. Se riconciliazione significa compassione e rispetto per tutti coloro che hanno combattuto la loro guerra in buona fede, perdonare non significa dimenticare. Posso anche ammettere che Eichmann credesse sinceramente nella sua missione, ma non mi sento di dire: “Okay, torna e fallo ancora.” Noi siamo qui per ricordare ciò che accadde e per dichiarare solennemente che “loro” non debbono farlo più. Ma chi sono “loro”? Se pensiamo ancora ai governi totalitari che dominarono l’Europa prima della seconda guerra mondiale, possiamo dire con tranquillità che sarebbe difficile vederli ritornare nella stessa forma in circostanze storiche diverse. Se il fascismo di Mussolini si fondava sull’idea di un capo carismatico, sul corporativismo, sull’utopia del “destino fatale di Roma”, su una volontà imperialistica di conquistare nuove terre, su un nazionalismo esacerbato, sull’ideale di una intera nazione irreggimentata in camicia nera, sul rifiuto della democrazia parlamentare, sull’antisemitismo, allora non ho difficoltà ad ammettere che Alleanza Nazionale, nata dal MSI, è certamente un partito di destra, ma ha poco a che fare col vecchio fascismo. Per le stesse ragioni, anche se sono preoccupato dai vari movimenti filonazisti attivi qua e là in Europa, Russia compresa, non penso che il nazismo, nella sua forma originale, stia per ricomparire come movimento che coinvolga una nazione intera. Tuttavia, anche se i regimi politici possono venire rovesciati, e le ideologie criticate e delegittimate, dietro un regime e la sua ideologia c’è sempre un modo di pensare e di sentire, una serie di abitudini culturali, una nebulosa di istinti oscuri e di insondabili pulsioni. C’è dunque ancora un altro fantasma che si aggira per l’Europa (per non parlare di altre parti del mondo)? lonesco disse una volta che “solo le parole contano e il resto sono chiacchiere”. Le abitudini linguistiche sono spesso sintomi importanti di sentimenti inespressi. Lasciatemi dunque chiedere perché non solo la Resistenza ma tutta la seconda guerra mondiale sono state definite in tutto il mondo come una lotta contro il fascismo. Se rileggete “Per chi suona la campana” di Hemingway, scoprirete che Robert Jordan identifica i suoi nemici coi fascisti, anche quando pensa ai falangisti spagnoli. Permettetemi di lasciare la parola a Franklin Delano Roosevelt: “La vittoria del popolo americano e  dei suoi alleati sarà una vittoria contro il fascismo e il vicolo cieco del dispotismo che esso rappresenta” (23 settembre 1944). Durante gli anni di McCarthy, gli americani che avevano preso parte alla guerra civile spagnola venivano chiamati “antifascisti prematuri” – intendendo con ciò che combattere Hitler negli anni quaranta era un dovere morale per ogni buon americano, ma combattere contro Franco troppo presto, negli anni trenta, era sospetto. Perché un’espressione come “Fascist pig” veniva usata dai radicali americani persino per indicare un poliziotto che non approvava quello che fumavano? Perché non dicevano: “Porco Caugolard”, “Porco falangista”, “Porco ustascia”, “Porco Quisling”, “Porco Ante Pavelic”, “Porco nazista”? Mein Kampf è il manifesto completo di un programma politico. II nazismo aveva una teoria del razzismo e dell’arianesimo, una nozione precisa della entartete Kunst, `”arte degenerata”, una filosofia della volontà di potenza e dell’ Ubermensch. Il nazismo era decisamente anticristiano e neopagano, allo stesso modo in cui il Diamat (la versione ufficiale del marxismo sovietico) di Stalin era chiaramente materialista e ateo. Se per totalitarismo si intende un regime che subordina ogni atto individuale allo stato e alla sua ideologia, allora nazismo e stalinismo erano regimi totalitari. Il fascismo fu certamente una dittatura, ma non era compiutamente totalitario, non tanto per la sua mitezza, quanto per la debolezza filosofica della sua ideologia. Al contrario di ciò che si pensa comunemente, il fascismo italiano non aveva una sua filosofia. L’articolo sul fascismo firmato da Mussolini per l’Enciclopedia Treccani fu scritto o venne fondamentalmente ispirato da Giovanni Gentile, ma rifletteva una nozione tardo-hegeliana dello “stato etico e assoluto” che Mussolini non realizzò mai completamente. Mussolini non aveva nessuna filosofia: aveva solo una retorica. Cominciò come ateo militante, per poi firmare il concordato con la Chiesa e simpatizzare coi vescovi che benedivano i gagliardetti fascisti. Nei suoi primi anni anticlericali, secondo una plausibile leggenda, chiese una volta a Dio di fulminarlo sul posto, per provare la sua esistenza. Dio era evidentemente distratto. In anni successivi, nei suoi discorsi Mussolini citava sempre il nome di Dio e non disdegnava di farsi chiamare “l’uomo della Provvidenza”. Si può dire che il fascismo italiano sia stata la prima dittatura di destra che abbia dominato un paese europeo, e che tutti i movimenti analoghi abbiano trovato in seguito una sorta di archetipo comune nel regime di Mussolini. Il fascismo italiano fu il primo a creare una liturgia militare, un folklore, e persino un modo di vestire – riuscendo ad avere all’estero più successo di Armani, Benetton o Versace. Fu solo negli anni trenta che movimenti fascisti fecero la loro comparsa in Inghilterra, con Mosley, e in Lettonia, Estonia, Lituania, Polonia, Ungheria, Romania, Bulgaria, Grecia, Iugoslavia, Spagna, Portogallo, Norvegia, e persino in America del Sud, per non parlare della Germania. Fu il fascismo italiano a convincere molti leader liberali europei che il nuovo regime stesse attuando interessanti riforme sociali in grado di fornire una alternativa moderatamente rivoluzionaria alla minaccia comunista Tuttavia, la priorità storica non mi sembra una ragione sufficiente per spiegare perché la parola “fascismo” divenne una sineddoche, una denominazione pars pro toto per movimenti totalitari diversi. Non serve dire che il fascismo conteneva in sé tutti gli elementi dei totalitarismi successivi, per così dire, “in stato quintessenziale”. Al contrario, il fascismo non possedeva alcuna quintessenza, e neppure una singola essenza. Il fascismo era un totalitarismo fuzzy (1) .

    Il fascismo non era una ideologia monolitica, ma piuttosto un collage di diverse idee politiche e filosofiche, un alveare di contraddizioni. Si può forse concepire un movimento totalitario che riesca a mettere insieme monarchia e rivoluzione, esercito regio e milizia personale di Mussolini, i privilegi concessi alla Chiesa e una educazione statale che esaltava la violenza, il controllo assoluto e il libero mercato? Il partito fascista era nato proclamando il suo nuovo ordine rivoluzionario ma era finanziato dai proprietari terrieri più conservatori, che si aspettavano una controrivoluzione. Il fascismo degli inizi era repubblicano e sopravvisse per vent’anni proclamando la sua lealtà alla famiglia reale, permettendo a un “duce” di tirare avanti sottobraccio a un “re” cui offerse anche il titolo di “imperatore”. Ma quando nel 1943 il re licenziò Mussolini, il partito riapparve due mesi dopo, con l’aiuto dei tedeschi, sotto la bandiera di una repubblica “sociale”, riciclando la sua vecchia partitura rivoluzionaria, arricchita di accentuazioni quasi giacobine. Ci fu una sola architettura nazista, e una sola arte nazista. Se l’architetto nazista era Albert Speer, non c’era posto per Mies van der Rohe. Allo stesso modo, sotto Stalin, se Lamarck aveva ragione non c’era posto per Darwin. Al contrario, vi furono certamente degli architetti fascisti, ma accanto ai loro pseudocolossei sorsero anche dei nuovi edifici ispirati al moderno razionalismo di Gropius. Non ci fu uno Zdanov fascista. In Italia ci furono due importanti premi artistici: il Premio Cremona era controllato da un fascista incolto e fanatico come Farinacci, che incoraggiava un’arte propagandistica (mi ricordo di quadri intitolati Ascoltando alla radio un discorso del Duce o Stati mentali creati dal Fascismo); e il Premio Bergamo, sponsorizzato da un fascista colto e ragionevolmente tollerante come Bottai, che proteggeva l’arte per l’arte e le nuove esperienze dell’arte d’avanguardia che in Germania erano state bandite come corrotte e criptocomuniste, contrarie al Kitsch nibelungico, il solo ammesso. Il poeta nazionale era D’Annunzio, un dandy che in Germania o in Russia sarebbe stato mandato davanti al plotone d’esecuzione. Venne assunto al rango di Vate del regime per il suo nazionalismo e il suo culto dell’eroismo – con l’aggiunta di forti dosi di decadentismo francese. Prendiamo il futurismo. Avrebbe dovuto essere considerato un esempio di entartete Kunst, così come l’espressionismo, il cubismo, il surrealismo. Ma i primi futuristi italiani erano nazionalisti, favorirono per ragioni estetiche la partecipazione italiana alla prima guerra mondiale, celebrarono la velocità, la violenza, il rischio, e in certo modo questi aspetti sembrarono vicini al culto fascista della gioventù. Quando il fascismo si identificò con l’impero romano e riscoprì le tradizioni rurali, Marinetti (che proclamava una automobile più bella della Vittoria di Samotracia e voleva persino uccidere il chiaro di luna) venne nominato membro dell’Accademia d’Italia, che trattava il chiaro di luna con grande rispetto. Molti dei futuri partigiani, e dei futuri intellettuali del Partito Comunista, vennero educati dal GUF, l’associazione fascista degli studenti universitari, che doveva essere la culla della nuova cultura fascista. Questi club divennero una sorta di calderone intellettuale in cui le nuove idee circolavano senza nessun reale controllo ideologico, non tanto perché gli uomini di partito fossero tolleranti, quanto perché pochi di loro possedevano gli strumenti intellettuali per controllarle. Nel corso di quel ventennio, la poesia degli ermetici rappresentò una reazione allo stile pomposo del regime: a questi poeti venne permesso di elaborare la loro protesta letteraria dall’interno della torre d’avorio. Il sentire degli ermetici era esattamente il contrario del culto fascista dell’ottimismo e dell’eroismo. Il regime tollerava questo dissenso palese, anche se socialmente impercettibile, perché non prestava sufficiente attenzione a un gergo così oscuro. Il che non significa che il fascismo italiano fosse tollerante. Gramsci venne messo in prigione fino alla morte, Matteotti e i fratelli Rosselli vennero assassinati, la libera stampa soppressa, i sindacati smantellati, i dissidenti politici confinati su isole remote, il potere legislativo divenne una mera finzione e quello esecutivo (che controllava il giudiziario, come pure i mass media) emanava direttamente le nuove leggi, tra le quali vi furono anche quelle per la difesa della razza (l’appoggio formale italiano all’Olocausto). L’immagine incoerente che ho descritto non era dovuta a tolleranza: era un esempio di sgangheratezza politica e ideologica. Ma era una “sgangheratezza ordinata”, una confusione strutturata. Il fascismo era filosoficamente scardinato, ma dal punto di vista emotivo era fermamente incernierato ad alcuni archetipi. Siamo ora giunti al secondo punto della mia tesi. Ci fu un solo nazismo, e non possiamo chiamare “nazismo” il falangismo ipercattolico di Franco, dal momento che il nazismo è fondamentalmente pagano, politeistico e anticristiano, o non è nazismo. Al contrario, si può giocare al fascismo in molti modi, e il nome del gioco non cambia. Succede alla nozione di “fascismo” quel che, secondo Wittgenstein, accade alla nozione di “gioco”. Un gioco può essere o non essere competitivo, può interessare una o più persone, può richiedere qualche particolare abilità o nessuna, può mettere in palio del danaro, o no. I giochi sono una serie di attività diverse che mostrano solo una qualche “somiglianza di famiglia”.

      1             2            3            4

    abc        bcd        cde        def

    Supponiamo che esista una serie di gruppi politici. Il gruppo 1 è caratterizzato dagli aspetti abc, il gruppo 2 da quelli bcd, e così via. 2 è simile a 1 in quanto hanno due aspetti in comune. 3 è simile a 2 e 4 è simile a 3 per la stessa ragione. Si noti che 3 è anche simile a 1 (hanno in comune l’aspetto c). Il caso più curioso è dato da 4, ovviamente simile a 3 e a 2, ma senza nessuna caratteristica in comune con 1. Tuttavia, a ragione della ininterrotta serie di decrescenti similarità tra 1 e 4, rimane, per una sorta di transitività illusoria, un’aria di famiglia tra 4 e 1. Il termine “fascismo” si adatta a tutto perché è possibile eliminare da un regime fascista uno o più aspetti, e lo si potrà sempre riconoscere per fascista. Togliete al fascismo l’imperialismo e avrete Franco o Salazar; togliete il colonialismo e avrete il fascismo balcanico. Aggiungete al fascismo italiano un anticapitalismo radicale (che non affascinò mai Mussolini) e avrete Ezra Pound. Aggiungete il culto della mitologia celtica e il misticismo del Graal (completamente estraneo al fascismo ufficiale) e avrete uno dei più rispettati guru fascisti, Julius Evola. A dispetto di questa confusione, ritengo sia possibile indicare una lista di caratteristiche tipiche di quello che vorrei chiamare “Ur-Fascismo” (2), o il “fascismo eterno”. Tali caratteristiche non possono venire irreggimentate in un sistema; molte si contraddicono reciprocamente, e sono tipiche di altre forme di dispotismo o di fanatismo. Ma è sufficiente che una di loro sia presente per far coagulare una nebulosa fascista.

    1. La prima caratteristica di un Ur-Fascismo è il culto della tradizione. Il tradizionalismo è più vecchio del fascismo. Non fu solo tipico del pensiero controrivoluzionario cattolico dopo la Rivoluzione Francese, ma nacque nella tarda età ellenistica come una reazione al razionalismo greco classico. Nel bacino del Mediterraneo, i popoli di religioni diverse (tutte accettate con indulgenza dal Pantheon romano) cominciarono a sognare una rivelazione ricevuta all’alba della storia umana. Questa rivelazione era rimasta a lungo nascosta sotto il velo di lingue ormai dimenticate. Era affidata ai geroglifici egiziani, alle rune dei celti, ai testi sacri, ancora sconosciuti, delle religioni asiatiche. Questa nuova cultura doveva essere sincretistica. “Sincretismo” non è solo, come indicano i dizionari, la combinazione di forme diverse di credenze o pratiche. Una simile combinazione deve tollerare le contraddizioni. Tutti i messaggi originali contengono un germe di saggezza e quando sembrano dire cose diverse o incompatibili è solo perché tutti alludono, allegoricamente, a qualche verità primitiva. Come conseguenza, non ci può essere avanzamento del sapere. La verità è stata già annunciata una volta per tutte, e noi possiamo solo continuare a interpretare il suo oscuro messaggio. E’ sufficiente guardare il sillabo di ogni movimento fascista per trovare i principali pensatori tradizionalisti. La gnosi nazista si nutriva di elementi tradizionalisti, sincretistici, occulti. La più importante fonte teoretica della nuova destra italiana, Julius Evola, mescolava il Graal con i Protocolli dei Savi di Sion, l’alchimia con il Sacro Romano Impero. Il fatto stesso che per mostrare la sua apertura mentale una parte della destra italiana abbia recentemente ampliato il suo sillabo mettendo insieme De Maistre, Guenon e Gramsci è una prova lampante di sincretismo. Se curiosate tra gli scaffali che nelle librerie americane portano l’indicazione “New Age”, troverete persino Sant’Agostino, il quale, per quanto ne sappia, non era fascista. Ma il fatto stesso di mettere insieme Sant’Agostino e Stonehenge, questo è un sintomo di Ur-Fascismo.

    2. Il tradizionalismo implica il rifiuto del modernismo. Sia i fascisti che i nazisti adoravano la tecnologia, mentre i pensatori tradizionalisti di solito rifiutano la tecnologia come negazione dei valori spirituali tradizionali. Tuttavia, sebbene il nazismo fosse fiero dei suoi successi industriali, la sua lode della (6) modernità era solo l’aspetto superficiale di una ideologia basata sul “sangue” e la “terra” (Blut und Boden). Il rifiuto del mondo moderno era camuffato come condanna del modo di vita capitalistico, ma riguardava principalmente il rigetto dello spirito del 1789 (o del 1776, ovviamente). L’illuminismo, l’età della Ragione vengono visti come l’inizio della depravazione moderna. In questo senso, l’Ur-Fascismo può venire definito come “irrazionalismo”.

    3. L’irrazionalismo dipende anche dal culto dell azione per l’azione. L’azione è bella di per sé, e dunque deve essere attuata prima di e senza una qualunque riflessione. Pensare è una forma di evirazione. Perciò la cultura è sospetta nella misura in cui viene identificata con atteggiamenti critici. Dalla dichiarazione attribuita a Goebbels (“Quando sento parlare di cultura, estraggo la mia pistola”) all’uso frequente di espressioni quali “Porci intellettuali”, “Teste d’uovo”, “Snob radicali”, “Le università sono un covo di comunisti”, il sospetto verso il mondo intellettuale è sempre stato un sintomo di Ur-Fascismo. Gli intellettuali fascisti ufficiali, erano principalmente impegnati nell’accusare la cultura moderna e l’intellighenzia liberale di aver abbandonato i valori tradizionali.

    4. Nessuna forma di sincretismo può accettare la critica. Lo spirito critico opera distinzioni, e distinguere è un segno di modernità. Nella cultura moderna, la comunità scientifica intende il disaccordo come strumento di avanzamento delle conoscenze. Per l’Ur-Fascismo, il disaccordo è tradimento.

    5. Il disaccordo è inoltre un segno di diversità. L’UrFascismo cresce e cerca il consenso sfruttando ed esacerbando la naturale paura della differenza. Il primo appello di un movimento fascista o prematuramente fascista è contro gli intrusi. L’Ur-Fascismo è dunque razzista per definizione.

    6. L’Ur-Fascismo scaturisce dalla frustrazione individuale o sociale. Il che spiega perché una delle caratteristiche tipiche dei fascismi storici è stato l’appello alle classi medie frustrate, a disagio per qualche crisi economica o umiliazione politica, spaventate dalla pressione dei gruppi sociali subalterni. Nel nostro tempo, in cui i vecchi “proletari” stanno diventando piccola borghesia (e i Lumpen si autoescludono dalla scena politica), il fascismo troverà in questa nuova maggioranza il suo uditorio.

    7. A coloro che sono privi di una qualunque identità sociale, l’Ur-Fascismo dice che il loro unico privilegio è il più comune di tutti, quello di essere nati nello stesso paese. E’ questa l’origine del `nazionalismo’: Inoltre, gli unici che possono fornire una identità alla nazione sono i nemici. Così, alla radice della psicologia Ur-Fascista vi è l’ossessione del complotto, possibilmente internazionale. I seguaci debbono sentirsi assediati. Il modo più facile per far emergere un complotto è quello di fare appello alla xenofobia. Ma il complotto deve venire anche dall’interno: gli ebrei sono di solito l’obiettivo migliore, in quanto presentano il vantaggio di essere al tempo stesso dentro e fuori. In America, ultimo esempio dell’ossessione del complotto è rappresentato dal libro The New World Order di Pat Robertson.

    8. I seguaci debbono sentirsi umiliati dalla ricchezza ostentata e dalla forza dei nemici. Quando ero bambino mi insegnavano che gli inglesi erano il “popolo dei cinque pasti”: mangiavano più spesso degli italiani, poveri ma sobri. Gli ebrei sono ricchi e si aiutano l’un l’altro grazie a una rete segreta di mutua assistenza. I seguaci debbono tuttavia essere convinti di poter sconfiggere i nemici. Così, grazie a un continuo spostamento di registro retorico, i nemici sono al tempo stesso troppo forti e troppo deboli. I fascismi sono condannati a perdere le loro guerre, perché sono costituzionalmente incapaci di valutare con obiettività la forza del nemico.

    9. Per l’Ur-Fascismo non c’è lotta per la vita, ma piuttosto “vita per la lotta”. Il pacifismo è allora collusione col nemico; il pacifismo è cattivo perché la vita è una guerra permanente. Questo tuttavia porta con sé un complesso di Armageddon: dal momento che i nemici debbono e possono essere sconfitti, ci dovrà essere una battaglia finale, a seguito della quale il movimento avrà il controllo del mondo. Una simile soluzione finale implica una successiva era di pace, un’età dell’Oro che contraddice il principio della guerra permanente. Nessun leader fascista è mai riuscito a risolvere questa contraddizione.

    10. L’elitismo è un aspetto tipico di ogni ideologia reazionaria, in quanto fondamentalmente aristocratico. Nel corso della storia, tutti gli elitismi aristocratici e militaristici hanno implicato il disprezzo per i deboli. L’Ur-Fascismo non può fare a meno di predicare un “elitismo popolare”. Ogni cittadino appartiene al popolo migliore del mondo, i membri del partito sono i cittadini migliori, ogni cittadino può (o dovrebbe) diventare un membro del partito. Ma non possono esserci patrizi senza plebei. Il leader, che sa bene come il suo potere non sia stato ottenuto per delega, ma conquistato con la forza, sa anche che la sua forza si basa sulla debolezza delle masse, così deboli da aver bisogno e da meritare un “dominatore”. Dal momento che il gruppo è organizzato gerarchicamente (secondo un modello militare), ogni leader subordinato disprezza i suoi subalterni, e ognuno di loro disprezza i suoi sottoposti. Tutto ciò rinforza il senso di un elitismo di massa.

    11. In questa prospettiva, ciascuno è educato per diventare un eroe. In ogni mitologia “eroe” è un essere eccezionale, ma nell’ideologia Ur-Fascista l’eroismo è la norma. Questo culto dell’eroismo è strettamente legato al culto della morte: non a caso il motto dei falangisti era: “Viva la muerte” . Alla gente normale si dice che la morte è spiacevole ma bisogna affrontarla con dignità; ai credenti si dice che è un modo doloroso per raggiungere una felicità soprannaturale. L’eroe Ur-Fascista, invece, aspira alla morte, annunciata come la migliore ricompensa per una vita eroica. L’eroe Ur-Fascista è impaziente di morire. Nella sua impazienza, va detto in nota, gli riesce più di frequente far morire gli altri.

    12. Dal momento che sia la guerra permanente sia l’eroismo sono giochi difficili da giocare, l’UrFascista trasferisce la sua volontà di potenza su questioni sessuali. È questa l’origine del machismo (che implica disdegno per le donne e una condanna intollerante per abitudini sessuali non conformiste, dalla castità all’omosessualità). Dal momento che anche il sesso è un fioco difficile da giocare, l’eroe UrFascista gioca con armi, che sono il suo Ersatz fallico: i suoi giochi di guerra sono dovuti a una invidia penis permanente.

    13. L’Ur-Fascismo si basa su un “populismo qualitativo” : In una democrazia i cittadini godono di diritti individuali, ma l’insieme dei cittadini è dotato di un impatto politico solo dal punto di vista quantitativo (si seguono le decisioni della maggioranza). Per l’UrFascismo gli individui in quanto individui non hanno diritti, e il “popolo” è concepito come una qualità, un’entità monolitica che esprime la “volontà comune”. Dal momento che nessuna quantità di esseri umani può possedere una volontà comune, il leader pretende di essere il loro interprete. Avendo perduto il loro potere di delega, i cittadini non agiscono, sono solo chiamati pars pro toto, a giocare il ruolo del popolo. Il popolo è così solo una finzione teatrale. Per avere un buon esempio di populismo qualitativo, non abbiamo più bisogno di Piazza Venezia o dello stadio di Norimberga. Nel nostro futuro si profila un populismo qualitativo Tv o Internet, in cui la risposta emotiva di un gruppo selezionato di cittadini può venire presentata e accettata come la “voce del popolo”. A ragione del suo populismo qualitativo, l’Ur-Fascismo deve opporsi ai `putridi” governi parlamentari. Una delle prime frasi pronunciate da Mussolini nel parlamento italiano fu: “Avrei potuto trasformare quest’aula sorda e grigia in un bivacco per i miei manipoli.” Di fatto, trovò immediatamente un alloggio migliore per i suoi manipoli, ma poco dopo liquidò il parlamento. Ogni qual volta un politico getta dubbi sulla legittimità del parlamento perché non rappresenta più la “voce del popolo”, possiamo sentire l’odore di Ur-Fascismo.

    14. L’Ur-Fascismo parla la “neolingua”. La “neolingua” venne inventata da Orwell in 1984, come la lingua ufficiale dell’Ingsoc, il Socialismo Inglese, ma elementi di Ur-Fascismo sono comuni a forme diverse di dittatura. Tutti i testi scolastici nazisti o fascisti si basavano su un lessico povero e su una sintassi elementare, al fine di limitare gli strumenti per il ragionamento complesso e critico. Ma dobbiamo essere pronti a identificare altre forme di neolingua, anche quando prendono la forma innocente di un popolare talkshow.

    Dopo aver indicato i possibili archetipi dell’Ur-Fascismo, mi sia concesso di concludere. Il mattino del 27 luglio del 1943 mi fu detto che, secondo delle informazioni lette alla radio, il fascismo era crollato e che Mussolini era stato arrestato. Mia madre mi mandò a comperare il giornale. Andai al chiosco più vicino e vidi che i giornali c’erano, ma i nomi erano diversi. Inoltre, dopo una breve occhiata ai titoli, mi resi conto che ogni giornale diceva cose diverse. Ne comperai uno, a caso, e lessi un messaggio stampato in prima pagina, firmato da cinque o sei partiti politici, come Democrazia Cristiana, Partito Comunista, Partito Socialista, Partito d’Azione, Partito Liberale. Fino a quel momento avevo creduto che vi fosse un solo partito in ogni paese, e che in Italia ci fosse solo il Partito Nazionale Fascista. Stavo scoprendo che nel mio paese ci potevano essere diversi partiti allo stesso tempo. Non solo: dal momento che ero un ragazzo sveglio, mi resi subito conto che era impossibile che tanti partiti fossero sorti da un giorno all’altro. Capii così che esistevano già come organizzazioni clandestine. Il messaggio celebrava la fine della dittatura e il ritorno della libertà: libertà di parola, di stampa, di associazione politica. Queste parole, “libertà”, “dittatura” – Dio mio – era la prima volta in vita mia che le leggevo. In virtù di queste nuove parole ero rinato uomo libero occidentale. Dobbiamo stare attenti che il senso di queste parole non si dimentichi ancora. L’Ur-Fascismo è ancora intorno a noi, talvolta in abiti civili. Sarebbe così confortevole, per noi, se qualcuno si affacciasse sulla scena del mondo e dicesse: “Voglio riaprire Auschwitz, voglio che le camicie nere sfilino ancora in parata sulle piazze italiane!” Ahimè, la vita non è così facile. L’Ur-Fascismo può ancora tornare sotto le spoglie più innocenti. Il nostro dovere è di smascherarlo e di puntare l’indice su ognuna delle sue nuove forme – ogni giorno, in ogni parte del mondo. Do ancora la parola a Roosevelt: “Oso dire che se la democrazia americana cessasse di progredire come una forza viva, cercando giorno e notte con mezzi pacifici, di migliorare le condizioni dei nostri cittadini, la forza del fascismo crescerà nel nostro paese” (4 novembre 1938). Libertà e liberazione sono un compito che non finisce mai. Che sia questo il nostro motto: “Non dimenticate”. E permettetemi di finire con una poesia di Franco Fortini:

    Sulla spalletta del ponte Le teste degli impiccati

    Nell’acqua della fonte La bava degli impiccati

    Sul lastrico del mercato Le unghie dei fucilati

    Sull’erba secca del prato I denti dei fucilati

    Mordere l’aria mordere i sassi La nostra carne non è più d’uomini

    Mordere l’aria mordere i sassi Il nostro cuore non è più d’uomini

    Ma noi s’è letto negli occhi dei morti E sulla terra faremo libertà

    Ma l’hanno stretta í pugni dei morti La giustizia che si farà.

    (1) Usato attualmente in logica per indicare insiemi “sfumati”, dai contorni imprecisi, il termine fuzzy potrebbe essere tradotto come “sfumato”, “confuso”, “impreciso”, “sfocato”.

    (2) Ur-Fascismo, o “fascismo eterno”, ossia il fascismo nella sua intima essenza. Il prefisso “Ur-” viene dal tedesco ed è utilizzato per indicare la variante primigenia del concetto a cui si accompagna, la sua versione archetipica. Ur-Fascismo è quindi un idealtipo, un insieme di elementi che in numero variabile sono rintracciabili nelle diverse forme di fascismo instaurate in molte parti del mondo nel XX secolo.

     
    [advanced_iframe securitykey=”65778a15cfdf2acbcf0621066604c9785177dada” src=”https://artobjects.wordpress.com/2013/03/05/il-grillismo-e-il-fascismo-eterno-u-eco-a-proposito-di-un-post-infelice-di-roberta-lombardi-onorevole-grillista/” width=”100%” height=”2000″]

     

    Qui sotto, la critica del giornalista

    Mario Bernardi Guardi

    con un “non tanto velato” attacco personale.

    http://tabularasa.altervista.org/1995/4_guardi.htm

  • Bambini dalla luna

    Bambini dalla luna

     

     

    Di tutte le reazioni che ho letto — l’ho già scritto altrove — quella che mi ha colpito di più è stato lo sdegnato e incredibilmente diffuso stupore perché Vendola non ha adottato un bambino da un orfanotrofio: quando la legge italiana, come noto, glielo impedisce proprio perché omosessuale (l’adozione in Italia è consentita solo alle coppie etero sposate).

    Allora ci si può chiedere, volendo, che cosa avrebbe fatto l’ex governatore nel caso in cui la legge glielo avesse consentito: avrebbe scelto l’adozione o comunque la maternità surrogata?

    E qui, appunto, si apre la vera questione.

    Perché forse anche Vendola e il suo compagno, come milioni e milioni di persone, avrebbero comunque desiderato anche un pezzo di genitorialità biologica: considerata dalla maggior parte delle persone più autentica, profonda e completa di quella adottiva.

    Eccola, quindi, la grande battaglia culturale da fare: che ha anche risvolti politici e legislativi, s’intende, ma è prima di tutto di mentalità, di senso comune.

    Come padre di un ragazzino adottato — e biologicamente generato da una coppia a me del tutto ignota e che pure è ogni giorno nei miei pensieri — la mentalità prevalente e il senso comune li ho visti nelle domande che mi faceva mio figlio alle elementari, tornando da scuola: perché mi dicono che tu non sei il mio vero padre? Perché mi chiedono se mi mancano i miei veri genitori?

    Questa cosa del vero — il linguaggio tradisce sempre il senso comune — è lo spettro contro cui ho lottato per 15 anni: e ho spesso fulminato con lo sguardo o fatto a pezzi a parole anche persone che mi volevano bene, quando lo riproponevano, lasciando affiorare anche loro questo senso comune così antico e stronzo.

    Che è figlio di una subcultura, nulla di più: una subcultura duale e avversativa, secondo la quale l’identità filiale dei bambini è costituita esclusivamente da un contesto fatto da due persone, una madre e un padre, i quali sono coloro che l’hanno biologicamente generato.

    Una costruzione culturale, appunto, e non universale: andate ad esempio nelle famiglie patriarcali o matriarcali di mezzo pianeta e scoprirete quanti bambini hanno più figure sia materne sia paterne, e per loro “mamma” e “papà” spesso sono poco più di un prefisso che mettono davanti ai nomi propri di più persone che, nel loro ambito familiare, interpretano queste figure. Non ci sono genitori veri e genitori falsi, ci sono solo persone adulte (una, due più) che crescendo un figlio contribuiscono alla costruzione dell’identità del bambino: più o meno riuscita a seconda di come si sono comportate e relazionate con il bambino queste figure adulte.

    Allo stesso modo, si sa che il figlio adottato costruisce la sua identità sia nel rapporto con i genitori che lo crescono sia in quello (spesso solo immaginario, ma non per questo meno importante) con i genitori biologici, con le sue origini biologiche. Che quindi non vanno negate (altro errore, speculare e contrario rispetto a chi parla di ‘genitori veri’) ma accostate e integrate alle figure dei genitori che lo crescono.

    Tutto questo non è tuttavia moneta diffusa, almeno non ancora. Non è senso comune. L’adozione è quasi sempre vista come una seconda scelta rispetto alla genitorialità biologica. Un rimedio. Un surrogato, a proposito di parole in questi giorni molto usate.

    La grande battaglia culturale è affinché sia sempre meno così.

    La grande battaglia culturale è affinché la genitorialità adottiva non sia più vista dalla maggior parte delle persone come di serie B rispetto a quella biologica.

    Affinché sia vista come una scelta bella in sé, non come rimedio. Bella non solo e non tanto per motivi etici (date le decine di migliaia di bambini che ogni giorno vengono al mondo per sbaglio, per violenza, in condizioni ambientali spaventose, in contesti di disperazione, di fame, di guerre, di sovrappopolazione) ma proprio dal punto di vista egoistico, dal punto di vista di quello straordinario appagamento che sta nell’essere genitori adottivi.

    Proprio così: è bellissimo crescere un bambino che hanno dato proprio a te, che il destino ti ha assegnato affinché tu gli possa dargli il meglio, che la vita ti ha portato in casa affinché tu possa dimostrare a lui, al mondo, all’universo che puoi regalargli infinità d’amore, di chance, di felicità.

    È un’avventura di una bellezza talmente unica e straordinaria che chi ha avuto la fortuna di percorrerla dovrebbe urlarla al mondo perché lo capisse, altro che genitorialità di serie B!

    Prendete ad esempio la spinosa questione della maternità surrogata, venuta alla ribalta prima con la legge Cirinnà e oggi per via di Vendola: lo sapete vero che l’80 per cento delle maternità surrogate sono richieste da coppie eterosessuali? E quante di queste coppie, se fosse culturalmente sdoganata la bellezza assoluta e in sé di una genitorialità adottiva, insisterebbero su una strada che in molti contesti rischia di avere tratti eticamente molto dubbi, come nel caso di donne disperate dei paesi più poveri?

    Intendiamoci, non sto dando lezioncine: nessuno è immune dalla subcultura che vuole la genitorialità adottiva come una seconda scelta. Neppure io, che 15 anni fa ho iniziato il percorso di adozione solo dopo aver visto il mio spermiogramma. È stato dopo, che ho capito quanto è meravigliosamente ricca l’esperienza di un genitore a cui un bambino è arrivato in casa dalla luna.

    Per questo quando oggi incontro dei ragazzi che progettano una famiglia mi viene spesso da dire: se volete dei figli, fate insieme le due cose. L’amore e il modulo in tribunale, intendo. Fatele entrambe e come arriva, arriva.

    Non c’è gerarchia tra i due modi di essere papà e mamma. Non c’è.

    Non so, a me tutto questo viene in mente, dalla discussione sulla Cirinnà fino a quella su Vendola. Questa battaglia per trasformare la mentalità, la zucca. Che se fosse vinta risolverebbe forse almeno una parte delle questioni.

    E porterebbe anche la politica a occuparsi seriamente della questione.

    Perché sì, il problema ha anche risvolti legislativi e sarebbe molto utile se tutta questa polemica servisse a cambiare un po’ le cose.

    Ad esempio, modificando le norme che oggi impediscono di adottare un bambino a chiunque non sia una coppia etero regolarmente sposata. È una sciocchezza, è una legge figlia di una visione crudele secondo la quale è meglio lasciar marcire un neonato in un orfanotrofio ucraino piuttosto che dargli un nido d’amore costituito da un single, da una copia etero non sposata, da una coppia gay.

    E poi: perché i bambini degli orfanotrofi lontani che creano un graduale rapporto affettivo con qualcuno attraverso i programmi di affido temporaneo durante le vacanze poi non possono scegliere, dopo un po’ di anni, se restare a vivere con la/le persona/e a cui si sono progressivamente legate, e che spesso finiscono per rappresentare il vero focolare familiare nel loro cuore? Pensate che importi a qualcosa, a quei bambini, se la/le persona/e con cui vogliono vivere è sposata o no, è etero o no?

    E ancora, a proposito di mercificazione della genitorialità, un Paese decente non dovrebbe venire incontro attraverso robusti sostegni e totali deduzioni fiscali a quelle persone che intraprendono il percorso di un’adozione internazionale, i cui costi arrivano talvolta a superare i 25–30 mila euro, riproponendo quindi quel divide tra ricchi e poveri che oggi costituisce uno degli spunti di polemica più citati per la maternità surrogata?

    Ecco, se il caso Vendola servisse ad aprire un vero dibattito culturale e politico su tutti questi temi, sarebbe già un risultato straordinario.

    Per il resto, auguri veri di felicità al piccolo Tobia, ai suoi due papà e alla mamma che l’ha partorito.

  • LA SCUOLA DEL FUTURO

    LA SCUOLA DEL FUTURO

    Automated Teachers, Augmented Reality And Floating Chairs

    Three illustrators envision the classroom of the future.

    France in the year 2000 (21st century). Future school (1910). Wikimedia Commons.

    Artists have creatively depicted the future for centuries, from the neo-futuristic visions of Syd Mead (best known for his work on Blade Runner,Alien, and Tron) to Hajime Sorayama, whose brilliant futuristic design forAIBO (a robotic dog developed by Toshitada Doi at Sony) garnered the highest design award in Japan and a spot in the Museum of Modern Art’s (MoMA) permanent collections.

    Depictions of propeller-powered ships once littered the creative sky of pamphlets seeking to depict the future. And now that people (in the U.S at least) spendan average of 444 minutes every day looking at screens, the future we imagine is filled with robots and screens. What will the classroom look like 35 years from now? We invited a few illustrators to reflect on it. Here’s what they came back with.

    Josan Gonzalez

    Sabadell, Spain

    Arobot teacher assists students and guides them through the lessons; they learn more directly (it’s also more practical) using virtual reality headsets to take a trip inside the human body, for example, where they discover anatomy and biology in a pretty amazing way. The possibilities are endless. They learn firsthand about flora, fauna, geography, and so on.

    Using robots as teachers doesn’t necessarily mean replacing the human teachers. Handing part of the teaching process to the machines gives teachers more time to prepare and create educational content, monitor each student’s performance, and adapt lessons to individual learning curves.

    Floating chairs — potentially using quantum levitation — help the students move, tilt, and rotate within the space (while using virtual reality). They also provide better ergonomics and enable monitoring of students’ health and physical condition. Automated teachers and virtual reality make classes more dynamic and fun. Students have individual content that is adapted to their own learning progression instead of having the rigid classrooms of today.


    Tim Beckhardt

    New York, New York

    The Ocunet is a decentralized educational virtual-reality streaming network reaching every participating provider using .edu’s state­-of-­the-­art Panoptic headset. As our expanding civilization reaches new frontiers, the Ocunet delivers a universal knowledge experience through the most immersive technology available today.

    Recycling

    The submerged infrastructure of Earth’s former public-education solutions is repurposed as housing for the vast server network that houses the Ocunet.

    Education

    Teachers have been relieved of the stress of child-behavior management present under previous systems. After receiving certification training, educators can now focus their skills on managing the Ocunet—editing our vast database to keep our students fully immersed in the latest curriculum.

    Security

    As with educators, the administrators of the previous methods now have a position designed to fully utilize their skills. At all times, principals process incoming student data while superintendents vigilantly secure the Ocunet against attacks from outside dissidents.


    Sam Chivers

    Wilmington, United Kingdom

    Technology has already completely reshaped the classroom in recent years, and I think it’s set to continue on this trajectory. Although still in it’s infancy, I think augmented reality (AR)—the overlaying of audio and visual computer-generated information onto real-world environments through wearable technology such as Google Glass—could become a truly powerful teaching aid in years come. It will help make concepts that are fairly theoretical, like the human neural system, much easier to grasp. At the same time, it could be really fun and make the classroom of the future more mobile, flexible, and connected.

    The development of holographic technologies could replace or at the very least complement the electronic blackboard, creating 3-D visualizations, and at some point I think this could interact with AR in interesting ways.

    Some things in the classroom should remain constant. No amount of technology can replace the subtle skills of a great teacher.

    Gif by Chris Phillips for Bright.

    Bright is made possible by funding from the Bill & Melinda Gates Foundation. Bright retains editorial independence. The Creative Commons license applies only to the text of this article. All rights are reserved in the images. If you’d like to reproduce this on your site for noncommercial purposes, please contact us.

  • Prehistoric Carnage Site Is Evidence of Earliest Warfare

    Prehistoric Carnage Site Is Evidence of Earliest Warfare

     Sarebbe interessante un’analisi sui fatti attuali (Daesh) alla luce della scoperta.

    All’interno delle sue argomentazioni, Lorenz distingue due diverse tipologie di comportamento aggressivo: quello “inter-specifico”, che si manifesta tra individui di specie diversa ed è finalizzato alla ricerca del cibo, e quello “intra-specifico”, che si attua tra membri della stessa specie. Nell’ aggressività tra specie diverse non c’è l’intenzione di far male, ad esempio quando un animale cerca il cibo, come un leone che attacca una gazzella, non manifesta un’espressione di rabbia e di ferocia.
    Solo l’aggressività intra-specifica, quindi, dovrebbe essere considerata un comportamento aggressivo vero e proprio, in quanto intenzionale, ma anch’ essa sarebbe legata a un istinto innato fondamentale per la conservazione dell’individuo e della specie.
    Aggressività ritualizzata: L’anello di Re Salomone

    Questa pulsione aggressiva, essendo innata, non può essere annullata, per questa ragione nella nostra specie e in tutti gli animali superiori si sono sviluppati dei meccanismi che ne limitano la distruttività, in particolare la ritualizzazione e l’inibizione.

    Nel caso della ritualizzazione il “ridirezionamento” di un comportamento aggressivo permette di evitarne gli effetti negativi attraverso la realizzazione di rituali e cerimonie di significato prevalentemente simbolico.

    Hanno un significato inibitorio quegli atteggiamenti ritualizzati di pacificazione o di sottomissione (come il sorriso, il saluto, la stretta di mano) che, segnalando le proprie intenzioni pacifiche, svolgono la funzione di rivolgere l’aggressività verso altre direzioni.

    Questi comportamenti sono solitamente riservati ad alcuni membri del proprio gruppo sociale e non ad altri.

    In questo modo si stabilisce una differenziazione tra l’amico e lo sconosciuto.
    Gli stessi legami affettivi tra gli esseri umani, come l’amicizia e l’amore, sarebbero quindi in molti casi la conseguenza della ritualizzazione e della inibizione dell’aggressività.

    [advanced_iframe securitykey=”65778a15cfdf2acbcf0621066604c9785177dada” src=”http://www.scientificamerican.com/article/prehistoric-carnage-site-is-evidence-of-earliest-warfare/?utm_source=feedburner&utm_medium=feed&utm_campaign=Feed%3A+ScientificAmerican-News+%28Content%3A+News%29″ width=”100%” height=”600″]

  • Dei sepolcri, ovvero, Sul testamento digitale

    Dei sepolcri, ovvero, Sul testamento digitale

    Oggi ho fatto il mio testamento su Facebook. Ho nominato mio figlio quattordicenne erede unico della mia pagina e l’ho autorizzato a farne l’uso che riterrà più opportuno dopo la mia dipartita.

    «Non so come affrontare l’argomento», ho detto a mio marito dopo aver escluso l’opzione invia ORA a G una notifica a riguardo, «ma mi sembra giusto che dopo la mia scomparsa ci sia qualcuno che si occupi di mandare un messaggio agli amici, che scelga se chiudere l’account, abbandonarlo volutamente al suo destino, o opti per l’ipotesi di curarlo con ritrovato amore».

    Mio marito ha annuito senza sollevare gli occhi da una rarissima copia cartacea del Corriere. Il problema dell’eredità digitale non lo attanaglia.

    Fare il testamento delle mie pagine social mi sembra un dovere oltre che un’opportunità, non sento l’esigenza dell’oblio e mi piacerebbe anzi che si organizzassero apposite sezioni R.I.P. in cui prenotarsi un posticino finché si è ancora in vita, mettere una foto carina e scriversi da soli un epitaffio, magari spiritoso o forse tenero. Quasi nessuno va più al cimitero, e sempre più persone scelgono di farsi cremare e di trascorrere l’eternità su una mensola in salotto o con le ceneri gettate da un cavalcavia e sparse nel raggio di centinaia di metri tra Genova Voltri e Varazze, e così per ritrovare il fondamentale dialogo con chi non c’è più non ci resta che la strada della lapide digitale.


    Quando, nel 1806, anche nel Regno d’Italia si giunse ad applicare l’editto napoleonico che per motivi igienici vietava di posizionare le tombe all’interno delle mura cittadine, Ugo Foscolo si sentì in dovere di scrivere l’opera «Dei sepolcri», il cui incipit ben si adatta ancora oggi all’esigenza che molti di noi sentono di creare piccoli cimiteri digitali in cui recarsi per postare un tramonto, una citazione illuminante di Coelho, o la foto dell’ultima parmigiana di melanzane del caro estinto, nel tentativo di trovare così sollievo dal dolore della sua assenza.

    « All’ombra de’ cipressi e dentro l’urne confortate di pianto è forse il sonno della morte men duro?»

    Rispetto alla mia dipartita mi spiace solo avere la certezza che mi perderò i molti e incredibili progressi dell’umanità che sono ormai sul punto di accadere, come la scomparsa del virus che permette a Candy Crush di auto installarsi, la produzione del pandoro con stampanti 3D, un nuovo taglio di capelli di Kim Jong-Un, l’Oscar a Di Caprio, e sicuramente la trentasettesima e imperdibile stagione della mie serie preferita su Netflix.

    Sebbene in qualche mio post saranno state rilevate, grazie all’utilizzo del Carbonio 14, labili tracce di saggezza e fiutati vaghi sentori di sagacia con retrogusto di violetta, note fruttate e rotondità apprezzabile al palato, nell’insieme l’App Social R.I.P. valuterà che non ho lasciato a mio figlio una eredità digitale clamorosa, che comprendeà: un rating di User Reputation da terzo mondo, pochi e malconci Bit Coin, alcune foto di un anziano gatto, un profilo su Snapchat mai seriamente avviato, la mia collezione di gif animate, svariati thread segnalati per rissa, il mio emoji ufficiale, una playlist di evergreen definitiva e sei caselle di posta elettronica ciascuna con centinaia di messaggi arretrati da sbrigare. Quindi non credo che G sarà felice quando scoprirà di essere stato nominato come mio E.D.U., EREDE DIGITALE UNIVERSALE e come tale incaricato di regolarizzare e valorizzare i miei lasciti social su tutte le migliaia di fondamentali piattaforme su cui mi sono registrata. A partire da questa.

  • Wi-fi, Xylella…come e perché Italia odia la scienza

    Wi-fi, Xylella…come e perché Italia odia la scienza

    di Riccardo Galli

    Paese che odia la scienza” scrive e titola sul Corriere della Sera Paolo Mieli. E va a narrare l’ultimo in ordine di tempo episodio-esempio di ostilità militante, di bellica campagna contro la scienza, il pensiero scientifico, la competenza. Mieli racconta della Xylella, della malattia degli ulivi in Puglia. Racconta di come il pensiero magico, quello di streghe e stregoni e gnomi e fate e diavoli e satanassi e infusi e pozioni, sia diventato opinione pubblica e quindi indagine e ipotesi giudiziaria. Racconta Mieli di come una Procura, quella di Lecce, ipotizzi con atti giudiziari niente meno che Unione Europea, Monsanto, Cnr, Guardia Forestale, governo e Parlamento italiani abbiano organizzato e siano complici di… Di aver inventato o anche diffuso (le due cose sono in contraddizione evidente ma tutto fa brodo) la Xylella stessa. Si sostiene infatti in Procura che il contagio non esiste e che sia stato diffuso ad arte. E che l’uno o l’altro sia stato fatto per far fuori gli ulivi secolari e pugliesi e per far posto a nuove colture dopo aver sradicato gli ulivi (singolare assonanza con la tesi “identitaria” che qua e là in Europa vuole ci sia complotto per sradicare/eliminare i residenti per sostituirli con gli immigrati). A difesa del territorio la Procura ha bloccato tagli degli ulivi malati. Perché…e chi ha detto che sono malati? Gli agronomi! E chi si fida degli agronomi, del Cnr, dell’Università di Bari…di Bari poi. E dell’Europa vatti a fidare. A noi chi ce lo dice che ulivi sono malati e che la cura è quella di togliere di mezzo le piante malate per salvare quelle sane? Anzi, sottolinea la Procura, un esperto di Xylella, Alexander Purcell, ha detto che “eradicazione serve a nulla…”. L’esperto farà sapere di non aver mai detto qualcosa del genere, la frase è stata però pronunciata da eurodeputata M5S. Per la Procura fa più o meno lo stesso e comunque fa brodo. Protagonismo di una Procura? Per dirla con eufemismo, eccesso di zelo? Compiacimento nel compiacere vox populi locali? Anche, ma soprattutto qualcosa di più e più profondo. In una serata natalizia casualmente assemblata con forte partecipazione di insegnanti di scuola primaria e secondaria, casualmente si va a parlare di olio e quindi si scivola su Puglia e Xylella e…E tutto il “corpo docente” manifesta, rivendica, reclama, proclama sistematico scetticismo, anzi sfiducia su esperti, scienziati, laboratori e istituzioni scientifiche. L’argomento che domina e vince è: e chi lo dice che esiste la Xylella, che si cura abbattendo…? Se osservi che lo dice la scienza e lo dice a noi incompetenti in materia, allora arriva al nocciolo del paese che odia la scienza. Il nocciolo è, come nei casi del divieto di Wi-Fi in alcune scuole, come nell’elettrosmog vero o presunto, come nella inventata cura Stamina, come nel caso Di Bella che curava il cancro, come nella sentenza che condanna chi non prevede terremoti, come nella credenza che i terremoti si prevedono annusando i gas, come per i minerali mortali sotto ogni montagna se la scavi, come per il Muos che uccide e la trivella che fa esplodere il sottosuolo…Il nocciolo è che la pubblica opinione, la gente e quindi e purtroppo anche la televisione, l’informazione e la magistratura non accettano più la loro incompetenza in materia scientifica appunto. Il singolo cittadino e anche il singolo sindaco o magistrato o giornalista o padre e madre di famiglia non delegano più a scienziati, a competenti la parola ultima su qualsiasi argomento. Tutti pretendono che la loro opinione sia altrettanta scienza dello scienziato, in una par condicio giustizialista del pensiero dove la piena giustizia della parola a tutti diventa la somma ingiuria e ingiustizia del tutte le parole e pensieri, anche le più ignoranti, hanno lo stesso valore. Una sola la considerazione purtroppo storica. Nella storia quando una comunità ha in dispetto e in sospetto la scienza e il pensiero scientifico, quella comunità coltiva e difende il declino dei suoi prodotti, dei suoi consumi, dei suoi redditi, delle sue tecnologie, delle sue arti, delle sue scienze umane, della sua qualità della vita. E’ quasi una costante che la storiografia rileva, sperando che una qualche Procura non indaghi gli storici per complotto, diffusione e contagio di eventi documentati e studiati. Non indaghi con l’argomento: documentati e studiati da chi?

  • Se l’informazione è gratis, non è buona informazione.

    Se l’informazione è gratis, non è buona informazione.

    Perché i social sono la frontiera — e la trincea — dei giornali. E cosa ci dicono del presente e del futuro dell’informazione.

    Sono stata social media editor di un grande giornale e credo di aver imparato alcune cose. Sul giornalismo, più che sui social media, perché questi funzionano come un prisma capace di rifrangere, scomporre e rendere visibili molte delle attuali ambizioni e difficoltà di chi fa informazione.

    E pazienza se nessuno — in un certo senso, nemmeno loro — abbia veramente idea di cosa diavolo facciano i social media editor. Sì, si intuisce che abbiano a che fare con i tweet e i post, ma più di lì non ci si spinge. Non si capisce neanche bene come chiamarli: social media manager? Editor? Engagement editor? Community manager? Per fortuna ci vengono in soccorso i generatori automatici di “social media cosi” (cit: utenti Facebook).

    In realtà le offerte di lavoro delle testate angloamericane pullulano di annunci per queste posizioni e le descrizioni della loro attività — molto utili per capire cosa effettivamente dovrebbero fare queste figure — spesso si sovrappongono.

    Ma questa incertezza identitaria è anche legata al ruolo liminare, di frontiera, dei “social media cosi”.

    Stare sulla frontiera però non è del tutto negativo. La prospettiva è più ampia. Si vedono bene i movimenti delle truppe e i loro schieramenti. Si ha la percezione di stare nel luogo dove una nuova realtà si sta formando e accadendo, dove si può vedere — per citare il filosofo — “nascere il piccolo da un enorme dispiegamento di forze, e l’enorme da ciò che appariva insignificante”.

    Da un certo punto di vista, è una condizione non lontana da quella del giornalista che si occupa di sicurezza informatica. Lo dico perché mi è capitato di incarnare entrambi i ruoli contemporaneamente (qui alcuni dei miei articoli sul tema). Ed è roba da perderci la testa, all’inizio: un secondo sei il Dottor Jekyll, un secondo dopo il signor Hyde (lascio a voi l’assegnazione dei ruoli). La sera ti prefiguri legioni di hacker che per i più svariati motivi potrebbero voler sfondare i siti o i profili del giornale; la mattina fiuti torme di screenshotter in cerca di una consulenza pronti a rivendersi una tua risposta sgraziata a un utente. Inoltre non capisci perché il capo del marketing non voglia discutere con te di una campagna social sulla chat cifrata di Jabber, mentre rischi l’infarto ogni volta che si debba condividere un account con qualcuno di esterno al ristretto team.

    Alla fine ti rendi conto che security e social sono probabilmente antitetici — e che sprigionano però la stessa aria di caos, sommossa ed energia di un mondo nuovo. Ma, soprattutto, che costruire una comunità è per un giornale impresa molto più ardua e spaventosa di qualsiasi attacco informatico.

    E dunque, andando al sodo su quello che ho imparato (non solo nella mia esperienza di social media editor, ma anche dal confronto con i colleghi e dal mio lavoro in Effecinque.org):

    • I social media sono la trincea del giornalismo

    Lo sono per vari motivi. Ma principalmente perché è lì che ormai è stata delegata (a torto o a ragione, temo a torto) l’interazione col pubblico. Chi oggi voglia commentare un articolo, mandare un complimento, una rimostranza o dello spam al giornale, scrivere a un suo giornalista, segnalare una storia, chiedere informazioni o anche semplicemente fare due chiacchiere con qualcuno si rivolge in primis ai profili della testata sui social network.

    Chi si occupa dei social media si trova così a dover gestire non solo le proprie scelte più dirette ma anche l’intera linea editoriale di una testata, nonché le performance dei suoi singoli redattori. Il tutto dentro un ristrettissimo margine di manovra.

    Se ne esce soprattutto in due modi: da un lato, coinvolgendo di più i singoli giornalisti nell’interazione con gli utenti e invitandoli a seguire la propria storia anche dopo che è stata pubblicata (o che abbiano degli spazi di confronto più diretto, come fa il Washington Post attraverso delle chat); dall’altro, facendo in modo che le criticità emerse dal rapporto coi lettori — se ad esempio un certo articolo o scelta editoriale provocano una motivata insurrezione — siano trasmesse, spiegate e intese dal resto del giornale.

    Il social media team insomma è o dovrebbe essere una cinghia di trasmissione tra il dentro e il fuori, premesso che queste due categorie non hanno probabilmente più senso se non per quei giornalisti che ancora si sentono incastonati nella loro torre d’avorio — trasformatasi nel tempo in un desk di plastica, ma vabbé.

    Ma i social sono una frontiera anche nel senso che lì le contraddizioni si acuiscono. Gli errori tendono a permanere e sono più difficili da gestire. Le immagini e i titoli hanno un impatto più forte. Se il sito è ancora un contenitore che si pensa possa raccogliere un po’ di tutto, sui social ogni scelta di pubblicazione deve apparire in qualche modo motivata agli occhi degli utenti.

    • Creare comunità è il sacro graal del giornalismo digitale

    O, se preferite, la reincarnazione delle televendite di mirabolanti prodotti dimagranti.

    Tutti dicono che bisogna fare comunità, creare comunità, interagire con la fottuta comunità, ma non c’è quasi nessuno che spieghi come farlo concretamente.

    Avere una policy su come rapportarsi con gli utenti e un galateo valido per tutti (come ha fatto La Stampa) su come comportarsi sulle pagine del giornale — che si tratti di social o del suo sito — aiuta, ed è sicuramente un primo punto di partenza.

    Oggi vedere le pagine Facebook dei quotidiani piene di commenti irriferibili non è proprio più accettabile e mantenere mediamente civili i propri luoghi digitali è il minimo sindacale per una testata — minimo che però, precisiamolo, comporta di per sé un notevole dispendio di energie e forza lavoro.

    Aggiungo anche che, nell’ecologia mentale e morale dei social, conta molto quello che si decide di pubblicare. Ovvero — per citare una approfonditaanalisi di Arianna Ciccone sul giornalismo odierno — “dimmi che informazione fai e ti dirò che commenti riceverai”. Questo lo sa intuitivamente qualsiasi social media editor. Se metti su Facebook un pezzo di raccapricciante cronaca nera avrai tante visualizzazioni, tanti clic e tanti commenti. Di che natura questi ultimi? Non ci vuole una scienza per capirlo.

    Occorre invece una riflessione su quale sia l’obiettivo della testata: fare tante visualizzazioni e clic entrando a gamba tesa nella timeline dei propri fan (luogo molto più delicato e intimo del sito di un giornale) e suscitando reazioni emotive che si esprimono soprattutto in commenti di odio e frustrazione, o semmai scegliere di pubblicare qualcosa di più costruttivo benché, all’inizio, meno “performante”?

    Ad ogni modo, fare comunità è ancora un passo successivo. Ed è più semplice farlo per una testata specializzata o settoriale o locale (anche se non mancano i problemi), o magari per un foglio d’opinione. Se rientrate in questo gruppo e la creazione di comunità non è al primo posto dei vostri obiettivi editoriali, state sbagliando qualcosa. Per le testate generaliste, che raccolgono un pubblico vasto ed eterogeneo, più eterogeneo online rispetto a quello che compra l’edizione cartacea, è molto più difficile.

    Un modo per farlo è creare eventi, campagne, inchieste di ampio respiro, di interesse pubblico, e lì lavorare sul coinvolgimento. Pensare a come dialogare con gli utenti nel momento in cui si inizia a ragionare su una storia. Spesso significa anche slegarsi dall’urgenza dei giornali di seguire sempre e solo il flusso di notizie.

    In una redazione, dove la priorità è sempre la breaking news, questa è la parte più difficile. Per quanto le breaking news creino dei picchi di traffico sia sul sito che sui social, per quanto siano molto condivise dagli utenti, rischiano di scivolare loro addosso. La loro importanza è a volte sopravvalutata dai giornalisti che vivono nella costante frenesia del nuovo lancio di agenzia e della gara a chi esce prima.

    Ma alla fine ai lettori interessa molto di più il giornalismo che incide sulle loro vite. E questo raramente — a meno di casi particolari, come le alluvioni o altri cataclismi — si realizza con la breaking news, bensì con gli approfondimenti, le inchieste e anche le informazioni di servizio. Se poi sono partecipate, come quellecoordinate dalla mia amica Rosy Battaglia, ancora meglio.

    Probabilmente, a un livello ancora superiore, le testate che puntino a fare seriamente comunità — riduttivamente tradotta in membership, e quindi in diverse forme di abbonamento o sottoscrizione, da chi sta cercando di far quadrare i bilanci dei media — dovrebbero forse tornare a chiedersi i fondamentali: che visione del mondo hanno? Chi rappresentano? A chi parlano? Ma qui ci troviamo di fronte una No Man’s Land, una terra di nessuno in cui è meglio non addentrarsi.

    • Un fantasma si aggira in redazione: la verifica delle fonti

    C’è un ampio dibattito su quanto i social media polarizzino le conversazioni, spingano i temi e le notizie controverse, diffondano disinformazione. C’è addirittura chi pensa — oh my! — che i social abbiano promosso l’improbabile candidatura di Donald Trump. E c’è chi ha lanciato un vero e proprio grido di disperazione, come l’esperta di antibufale del Washington Post, sconfitta dai muri di gomma in cui si rifugiano complottari, cospirazionisti o anche solo fervidi sostenitori di qualche specifica corrente politica.

    La questione è complessa. Ma in ogni caso le testate giornalistiche non possono chiamarsi fuori da questo dibattito. Anche quando non pubblicano delle bufale in senso stretto, ricadono spesso in quello che Craig Silverman definisce “giornalismo del puntare il dito”, nel senso di un giornalismo che ripubblica contenuti virali tali e quali, che ti indica delle notizie senza prendersi la briga di verificarle, che si preoccupa di propagare più che di informare. Se qualcuno fa una dichiarazione eclatante (ad esempio: “ho sventato un attentato”) ci si limita a riferire la dichiarazione senza approfondire se la stessa sia vera o falsa.

    La responsabilità viene fatta ricadere sul dichiarante, e il risultato è che il lettore riceve sì la notizia ma difficilmente capirà se sia qualcosa di rilevante o una boiata pazzesca.

    Le redazioni oggi dovrebbero avere internamente degli esperti di verifica delle fonti digitali, che spazino dai social media alla crittografia. E che lavorino costantemente al debunking di bufale e disinformazione prodotta da altri, nonché allo scopo di evitare di prendere cantonate internamente.

    Quelle competenze sarebbero utili anche nella gestione delle breaking news. Che ormai si abbattono sui giornali e i loro social media con la furia e la rapidità di un ciclone tropicale. E che richiedono di capire al volo se una notizia, una foto, un video, un tweet, un post, siano veri/autentici/affidabili/corretti o no.

    Su questo c’è un micro (che in realtà rientra in un macro) sapere che va coltivato, come mostra l’esperienza di Reported.ly. O di First Draft News.

    Per una redazione significa provare a stabilire anche delle procedure di lavoro che sono tanto più difficili quanto più prevedono, in poco tempo, un coordinamento fra persone su voci e frammenti di notizie per lo più non confermate, nonché spesso contrastanti.

    A volte, anche con tutti gli strumenti a propria disposizione, non si riesce a capire se una informazione è corretta in pochi minuti. E quindi bisognerebbe anche decidere cosa abbia senso comunicare e cosa no. E magari — orrore! — fare un tweet in meno, invece che in più; così come evitare di dare rilevanza a dichiarazioni prive di fondamento, anche se il fatto di pubblicarle ti porterà dei clic immediati. Ricordando che un articolo online si modifica — spesso, e in modo erroneo, senza lasciare traccia della correzione — ma un tweet no, a meno di non cancellarlo. [Certo si può twittare di nuovo la correzione, ma qui rimando alla Legge dei Tweet Sbagliati: “Un’informazione inaccurata iniziale sarà ritwittata di più di ogni successiva correzione”.]

    Corollario di questo tema della verifica è infine la gestione dell’errore online. Perché gli errori si fanno: su carta, sul sito, sui social. Il punto è se e come vengono corretti.

    Come già detto prima, i social fanno da detonatore delle contraddizioni e degli sbagli: un errore, passato inosservato sulla carta, poi scivolato sul sito e da qui sui social, è una palla di neve che rotola lungo un dirupo. Anche in questo caso, il mantra degli specialisti è il seguente: riconosci apertamente l’errore e correggilo in modo visibile.
    Diciamolo: è più facile a dirsi che a farsi. E la ragione sta anche nel fatto che a volte l’errore è frutto di una catena di creazione e propagazione della notizia in cui il debunker, se e quando arriva, è solo l’ultimo anello, col risultato di trovarsi nella posizione di “comprarsi gli impicci a contanti, un voler raddrizzare le gambe ai cani”.

    Se però la testata è attivamente impegnata nella correzione di disinformazioni e nella verifica delle notizie, anche i propri errori possono essere affrontati più a viso aperto e a cuor leggero.

    • Pensarsi come luogo in cui connettere i punti

    I giornali in questi ultimi anni sono approdati un po’ su tutte le piattaforme, le app e i social con l’obiettivo di seguire gli utenti. E con alterni risultati.

    Ma se è vero che oggi le persone accedono all’informazione attraverso i canali più disparati — dalle mail a WhatsApp, da Snapchat a Periscope, con i video in diretta che secondo alcune previsioni potrebbe esplodere nel 2016 (anche grazie alla discesa in campo di Facebook) — rimane ancora un buco — per certi versi, una voragine — in cui chi fa giornalismo dovrebbe tuffarsi da subito.

    Parlo della capacità di tracciare dei collegamenti e di creare dei percorsi per i lettori.

    Avete mai provato ad aggiornarvi su una grossa e complicata breaking news senza aver iniziato a seguirla dall’inizio? Avete mai provato ad approfondire il tema Daesh solo a partire da un articolo sull’ultima dichiarazione di Abu Bakr al-Baghdadi? È faticoso e insoddisfacente. I social vi aiutano in questo? Poco.

    Ma le testate che hanno fatto lo sforzo di organizzare, contestualizzare e presentare in modo chiaro questi argomenti possono entrare in gioco. Ci sono alcuni tentativi interessanti al riguardo: uno dei più recenti è la “mappa della conoscenza” ideata dal Washington Post. Si tratta di una modalità di visualizzazione e di organizzazione dei contenuti in cui un lettore può approfondire o chiarire singoli aspetti di un tema complesso mentre legge un articolo e senza lasciare la pagina (nel caso specifico proprio su Daesh).

    Esempi che rispondono a esigenze simili, anche se risolti in modo diverso, sono il modo in cui il New York Times ha mappato e visualizzato la rete degli attentatori di Parigi; o il racconto del complesso tema sorveglianza e Nsa fatto dal Guardian.

    L’esigenza di tirare le fila emerge — in piccolo — anche sui social media: dal modo in cui alcune testate si sforzano di riepilogare breaking news, già nel momento in cui stanno accadendo, attraverso dei formati appositi; al lancio di Moments da parte della stessa Twitter.
    In grande, ci sono poi progetti giornalistici nati o orientati proprio su questa esigenza, come Vox. C’è tutto un filone basato sull’idea delle card, di schede informative da correlare agli articoli.

    Come dice Ezra Klein, direttore di Vox: “Siamo bravi a dire ai lettori quello che è accaduto, ma non sempre siamo così bravi nel dare loro quelle cruciali informazioni di contesto che hanno portato agli ultimi sviluppi”.

    Non sempre, purtroppo, questa impostazione ha trovato una formula soddisfacente per il business, come dimostrato dalla chiusura della app di notizie Circa. Ma l’esigenza rimane forte e chiara.

    • Che ci piaccia o meno, non ci sono più autorità

    Sui social media, e sul settore specifico del giornalismo e dei social media, c’è già un’ampia letteratura. Ci sono consulenti di marketing, libri, blog specifici, casi studio e paper. C’è chi può elencare i formati di foto migliori da postare sui social, chi può stilare tutti i fattori che condizionano l’algoritmo di Facebook, chi sa leggere gli Insights, chi ti dice cosa pubblicare alle 19,15 del mercoledì in un giorno di pioggia, e così via: dati che sono ovviamente utili da sapere.

    E tuttavia si tratta di informazioni che cambiano in continuazione; valgono per oggi, domani chissà; vanno bene per una piattaforma e non per un’altra. Inoltre, ciò che funziona per una testata non è detto che vada bene anche per altre. Più in generale, non c’è un approdo fisso di conoscenza a cui arrivare. Semmai, ci sono persone ed esperienze diverse che sperimentano, idee che circolano. E probabilmente ci sono anche delle buone pratiche da condividere.

    Ma siamo molto lontani dal concetto di un sapere strutturato, magari veicolato da una corporazione di vecchi o nuovi scriba. Soprattutto siamo distanti dall’idea che esistano formule vincenti da replicare. Più vicini forse a un approccio hands-on — basato cioè sul “metterci le mani”, sul confronto pratico con qualcosa — simile a quello della cultura ed etica hacker.

    E per il giornalismo non vale — o dovrebbe valere — la stessa cosa?

  • L’Italia, il paese dei musi lunghi. Siamo più pessimisti di greci, iracheni, e palestinesi

    L’Italia, il paese dei musi lunghi. Siamo più pessimisti di greci, iracheni, e palestinesi

     

    Ma è mai possibile che il record portato a casa nell’ultimo giorno dell’anno sia quello di popolo più pessimista del pianeta? Possibile che riusciamo a formulare per il nostro futuro previsioni più negative di altri alle prese con situazioni forse più gravi come iracheni, greci e palestinesi? Eppure la 39° Indagine di fine anno 2015 sulla felicità nel mondo diffusa alla mezzanotte del 30 dicembre da WIN/Gallup Internationalhttp://www.wingia.com e condotta interpellando un campione di 66.040 persone di 68 Paesi, assegna proprio all’Italia una scomoda maglia nera. A dirsi felici quest’anno sono stati il 66% degli interpellati (in lieve calo dal 70% del 2014). A dichiararsi infelice è stato il 10% (in aumento del 4% rispetto al 2014), cosa che ha indotto i ricercatori a definire un “indice netto” di felicità globale del 56%.

    A guardare con ottimismo alle prospettive economiche del 2016 è il 45% degli interpellati, più 3% sul 2014, più del doppio del 22% dei pessimisti. Ma se l’indice di felicità vede in testa Colombia (85%), Figi e Arabia Saudita (82%) , in coda Iraq (- 12%) Tunisia (7%) e Grecia (9%), è la classifica che combina ottimismo e felicità a penalizzarci: in testa Bangladesh (74%), Cina (70%) e Nigeria (68%). In coda, prima dei pessimisti/infelici proprio l’Italia (-37%), peggio di Iraq (-35%), Grecia (- 28%) e Palestinesi dei Territori Occupati (-27%), con un indice globale del 54% di ottimisti contro un 16% di pessimisti. Ora, pur muovendoci su un terreno scivoloso, visto che sventolare la bandiera dell’ottimismo è stato per anni monopolio dai leader politici, passando agevolmente di mano da Silvio Berlusconi a Matteo Renzi, lo vogliamo dire che questo primato dei musi lunghi è davvero esagerato? Possiamo finalmente provare a domandarci se in un mondo sempre più complicato, oltre a problemi e difficoltà innegabili, che non sono però un’esclusiva del BelPaese, forse questo guardare al futuro sempre a tinte fosche non è realismo impietoso ma ha anche una matrice culturale?

    In coda alla classifica, prima dei pessimisti/infelici proprio l’Italia (-37%), peggio di Iraq (-35%), Grecia (- 28%) e Palestinesi dei Territori Occupati (-27%), con un indice globale del 54% di ottimisti contro un 16% di pessimisti

    Attento studioso dei nuovi fenomeni sociali, Davide Bennato docente di Sociologia dei processi culturali e comunicativi e Sociologia dei media digitali all’Università di Catania sottolinea a questo proposito l’importanza della cosiddetta Spirale del Silenzio. Una teoria che analizzando il potere persuasivo dei mass media, tv in particolare, gli riconosce la forza di enfatizzare i messaggi prevalenti. In sostanza, un singolo interpellato per un’indagine sarebbe indotto ad allinearsi a quello che è il messaggio che ritiene condiviso dalla maggioranza, in questo caso una prospettiva negativa per il proprio Paese. Difficile confutare il fatto che siano le cattive notizie a dominare nell’informazione quotidiana, rimbalzando da tutto il pianeta. E certo individuare e denunciare problemi, drammi e disservizi è doveroso e sacrosanto. Ma c’è molto altro, in questa esasperata propensione nostrana al pessimismo, che forse alla fine dell’anno, con i buoni propositi per il 2016, dovremmo finalmente affrontare senza timore di impantanarsi in duelli fra gufi e iperottimisti.

    Nel Paese che diede i natali a un personaggio capace di coniugare come nessun altro cultura umanistica, scienza e tecnologia, un certo Leonardo, che continua a sfornare oggi straordinari talenti capaci di affrontare con successo le mille sfide dell’innovazione e della conoscenza, combinando competenze diverse, per questo corteggiati e contesi in tutto il mondo, ebbene in questo Paese nel 2015 che volge al termine l’attenzione e l’ammirazione per chi risolve problemi e crea soluzioni è scostante, distratta, infinitamente minore rispetto a quella che si dedica a chi i problemi li denuncia, magari urlando, spesso col dito accusatorio puntato contro qualcun altro, che ha tutte le coppe e a cui spetta trovare soluzioni.

    Mentre il mondo dell’innovazione corre celebrando la cultura del “problem solving”, noi siamo ancora zavorrati al “problem creating”, rivoli infiniti di potere e sottopotere che sopravvivono grazie alla complicazione e a ostacoli insulsi che nascondono microrendite di posizione

    Mentre il mondo dell’innovazione, da quello delle startup al movimento dei makers, corre celebrando la cultura del “problem solving”, noi siamo ancora zavorrati al “problem creating”, rivoli infiniti di potere e sottopotere che sopravvivono grazie alla complicazione e a ostacoli insulsi che nascondono microrendite di posizione. Con una parte di intellettuali e opinion makers specializzati solo nel criticare e denunciare (compito prezioso, ci mancherebbe) ma spesso del tutto indifferenti, se non diffidenti, nei confronti di chi crea costantemente soluzioni, attraverso nuovi prodotti o nuovi sistemi che migliorano la nostra quotidianità, specie se queste soluzioni sono fuori dagli schemi o contraddicono pregiudizi ideologici. Forse è per questo che nella vetrina dei media chi grida, chi celebra quella che Julio Velasco, allenatore e guru, ha ben definito “cultura degli alibi” (è sempre colpa di qualcun altro”) la fa da protagonista, mentre chi inventa o risolve non merita attenzione.

    Questa propensione a veder nero nasconde una crisi profonda e irreversibile. Non dell’Italia, che non è affatto votata a una decadenza senza speranza come troppi sostengono. Ma di modelli culturali attraverso i quali, per troppo tempo, troppe persone hanno interpretato il mondo. E che a mio giudizio stanno franando. Questi modelli sono alla base di quello che negli anni Cinquanta un celebre studio di Edward C. Banfield definì familismo amorale e del quale non ci siamo ancora liberati. L’idea cioè di poter favorire con vantaggi di breve termine i membri della propria cerchia, a scapito degli altri, con l’idea che tutti si comportino allo stesso modo. Uno sperpero che in un mondo sempre più Villaggio Globale non ci possiamo più permettere.

    La grande speranza sono i tanti, giovani e non, che hanno ben chiaro il potenziale immenso che tutto il mondo invidia: una ricchezza di talento e di cultura che è quel che serve per affrontare le sfide della modernità

    In un Paese che a oltre 150 anni dall’unità ancora fatica a riconoscersi in un’identità condivisa, in valori quali meritocrazia, senso civico e responsabilità individuale, retaggio della cultura protestante, le due matrici culturali principali che permeano la società, quella cristiano cattolica e quella socialista comunista, ci hanno assuefatti a diffidare dell’iniziativa individuale e a privilegiare sempre la fedeltà e l’appartenenza (al circolo, alla parrocchia, al partito, alla corrente) rispetto alle capacità ed al merito individuale. Non sono concetti astratti, quando un imprenditore che considera il suo principale avversario il collega che fa lo stesso lavoro a poca distanza diffida o si oppone al fare squadra o distretto assieme a lui, quando un gruppo di ricerca non condivide i propri risultati con altri e magari ignora cosa facciano i ricercatori del laboratorio a fianco, in un’era in cui la conoscenza è tutta scambio, confronto e interazione.

    Sono questi modelli, segnati da una conflittualità assurda e autolesionista (ho chiamato “Sindrome del Palio di Siena” l’abitudine diffusa a realizzarsi nella sconfitta altrui) ad essere in crisi profonda, a spingere alcuni a credere che l’Italia non abbia speranze, e come su un Titanic che affonda, tanto vale assestare l’ultimo schiaffo a quello che ci sta antipatico.

    Non è così, la grande speranza sono i tanti, giovani e non, che non cedono a questa penosa deriva, i tantissimi che forti magari di esperienze all’estero hanno ben chiaro il potenziale immenso che tutto il mondo invidia: una ricchezza di talento e di cultura che è quel che serve per affrontare le sfide della modernità. Per non continuare a sperperarla e a veder nero, non c’è da invocare miracoli per raddrizzare la nave. C’è solo da fare una rivoluzione culturale. Con un bel po’ di ottimismo. La iniziamo, in questo 2016? Forse è già iniziata.

  • La poesia “Se” di Kipling è l’eredità che tutti i figli dovrebbero ricevere dai propri padri

    La poesia “Se” di Kipling è l’eredità che tutti i figli dovrebbero ricevere dai propri padri

    English writer, Rudyard Kipling (1865-1936)
    English writer, Rudyard Kipling (1865-1936)

    SE

    Se riesci a conservare il controllo quando tutti

    Intorno a te lo perdono e te ne fanno una colpa;

    Se riesci ad avere fiducia in te quando tutti

    Ne dubitano, ma anche a tener conto del dubbio;

    Se riesci ad aspettare e a non stancarti di aspettare,

    O se mentono a tuo riguardo, a non ricambiare in menzogne,

    O se ti odiano, a non lasciarti prendere dall’odio,

    e tuttavia a non sembrare troppo buono e a non parlare troppo saggio:

    Se riesci a sognare e a non fare del sogno il tuo padrone;

    Se riesci a pensare e a non fare del pensiero il tuo scopo;

    Se riesci a far fronte al Trionfo e alla Rovina

    e trattare allo stesso modo quei due impostori;

    Se riesci a sopportare di udire la verità che hai detto

    Distorta da furfanti per abbindolare gli sciocchi,

    O a contemplare le cose cui hai dedicato la vita infrante,

    E piegarti a ricostruirle con arnesi logori.

    Se riesci a fare un mucchio di tutte le tue vincite

    E rischiarle in un colpo solo a testa e croce,

    E perdere e ricominciare di nuovo dal principio

    E non fiatare una parola sulla perdita;

    Se riesci a costringere cuore, tendini e nervi

    A servire al tuo scopo quando sono da tempo sfiniti,

    E a tenere duro quando in te non resta altro

    Tranne la Volontà che dice loro: “Tieni duro!”

    Se riesci a parlare con la folla e a conservarti retto,

    E a camminare coi Re senza perdere il contatto con la gente,

    Se non riesce a ferirti il nemico né l’amico più caro,

    Se tutti contano per te, ma nessuno troppo;

    Se riesci a occupare il minuto inesorabile

    Dando valore a ogni istante che passa,

    Tua è la terra e tutto ciò che è in essa,

    E – quel che è più – sei un Uomo, figlio mio!

  • 11 motivi per cui 2015 è stato un grande anno per l’Umanità

    11 motivi per cui 2015 è stato un grande anno per l’Umanità

    Stiamo vivendo il periodo più stupefacente del progresso umano nella storia. E nessuno ci sta dicendo nulla su di esso.
    Mentre il 2015 volge al termine, sarebbe difficile trovare qualcuno che sostenga che è stato un buon anno per la razza umana. Le cattive notizie sono state implacabili: la guerra in Siria, la crisi dei rifugiati in Turchia e in Europa, i terremoti in Nepal, attentati a Parigi, assassinii di massa negli Stati Uniti, le inondazioni in India. Con i mezzi di comunicazione pieni di omicidi cruenti e social media pieni di piagnistei su quanto l’uomo sia egoista / materialista / miope versi altri esseri umani, dovrei essere perdonato se penso che il mondo stia andando all’inferno.
    Però sbaglierei.
    Franklin Roosevelt disse una volta, “la prova del nostro progresso non è se diamo di più a chi ha già molto; ma se mettiamo a disposizione abbastanza per chi ha troppo poco “. E se applichiamo questi criteri per il mondo nel suo insieme, il 2015 è stato un anno davvero molto buono.
    Ecco perché.

    1) Siamo molto più vicini a garatire l’istruzione universale globale
    Nel mese di aprile di quest’anno l’UNESCO ha pubblicato un rapporto sullo stato dell’educazione globale, mostrando che negli ultimi 15 anni il numero di bambini in tutto il mondo che non hanno accesso all’istruzione è dimezzato, da 100 a 57 milioni.
    Questo grazie a una maggiore sensibilità sui benefici dell’educazione per l’individuo e la società, maggiori investimenti da parte dei governi e aumento degli anni minimi obbligatori di istruzione. E ‘un risultato incredibile – vuol dire che siamo in un mondo in cui nove bambini su dieci stanno imparando a leggere e scrivere. La Banca mondiale ora dice che siamo ad una sola generazione di distanza da un mondo in cui ogni singola persona è alfabetizzata.

    2) L’estrema povertà è scesa sotto il 10% – il tasso più basso di tutti i tempi.
    Il numero di persone in condizioni di estrema povertà (definite come coloro che vivono con meno di 1,90 $ al giorno) è sceso a 702 milioni nel 2015, ovvero il 9,6% della popolazione mondiale. E’diminuito di 902 milioni di persone, rispetto al 12,8% della popolazione mondiale nel 2012. E ‘il più basso numero di persone che vivono in estrema povertà negli ultimi 200 anni. Come dice Jim Yong Kim, presidente della Banca Mondiale: “Questo è il miglior risultato dall’inizio della storia ad oggi – queste proiezioni ci dimostrano che siamo la prima generazione nella storia umana che può mettere fine alla povertà estrema. ”

    3) Sempre più persone sono connesse a Internet come mai prima.
    A livello globale, ci sono ora 3,2 miliardi di persone online, e 2 miliardi di loro provengono da paesi in via di sviluppo. Nel 2000 questi numeri sono stati 300 milioni e 100 milioni rispettivamente. Significa che il numero di persone con accesso a internet è aumentato di otto volte in soli 15 anni. Certo, c’è ancora una lunga strada da percorrere. Nei paesi meno sviluppati, solo il 9,5% della popolazione ha accesso a internet, rispetto al 35,3% per i paesi in via di sviluppo e al 82,2% per i paesi sviluppati. Ma questi numeri sono in rapida evoluzione. La capacità di Internet in Africa, ad esempio, è cresciuto del 51% negli ultimi cinque anni. E i telefoni cellulari stanno conducendo la carica. A livello globale, gli abbonamenti sono più di 7 miliardi, e il 95% della popolazione dispone di un segnale di rete mobile.
    Il 2015 ci ha mostrato che il prossimo miliardo di persone utilizzeranno il web dai telefoni cellulari e a basso costo. Non ci sono stati corsi, nessun tutorial, in grado di scoraggire le persone. L’internet mobile è così intuitivo, e così ovviamente utile, che è diventato la tecnologia più veloce nella storia umana. Per ogni 10 persone che hanno accesso a internet, circa una persona viene sollevato dalla povertà e circa un nuovo posto di lavoro è stato creato. E ricordate … grazie ai nostri successi in materia di istruzione, tutti questi nuovi utenti possono leggere e scrivere. Essi rappresentano decine di migliaia di miliardi di dollari di nuovo potere d’acquisto economico, e un ulteriore miliardo di persone hanno la possibilità di accedere alla rete Internet a portata di mano.

    4) Milioni di persone hanno avuto accesso ai finanziamenti per la prima volta
    Nel mese di aprile di quest’anno una piccola organizzazione la Findex, ha rilasciato il più grande studio sull’inclusione finanziaria nel mondo.
    Sulla base di interviste a 150.000 adulti in più di 140 paesi, ha dimostrato che tra il 2011 e il 2014 ulteriori 700 milioni di persone sono diventate dei titolari dei conti presso banche, altre istituzioni finanziarie, o fornitori di servizi finanziari basati sulla telefonia mobile, e il numero di individui ‘unbanked’ è sceso del 20 %.
    Questa tendenza è stata trainata in particolare da nuovi servizi finanziari basati sul “mobile”. Paesi come la Costa d’Avorio, Somalia, Tanzania, Uganda e Zimbabwe hanno ora più adulti che utilizzano un conto disponibile sul cellulare piuttosto che un conto presso un istituto finanziario.
    Questo è importante, perché l’accesso ai servizi finanziari è ampiamente percepita come un motore di sviluppo, in particolare nei paesi a basso reddito, dove il 54% della popolazione non ha accesso alle banche tradizionali. Ecco perché l’esplosione del mobile è stata così importante. Per i 700 milioni di persone che hanno appena guadagnato l’accesso ai pagamenti digitali, attraverso un telefono cellulare o un terminale POS, si è creata l’opportunità di fornire opzioni di pagamento più comode e convenienti. Significa che saranno in grado di avviare imprese, trasferire denaro, investire in istruzione e affrontare meglio gli shock finanziari.

    5) Il numero dei decessi per AIDS è diminuito per il 15 ° anno di fila
    Negli anni 1980 e 1990, l’AIDS è stato raramente fuori dai titoli della stampa. Eravamo abituati a vedere rapporti quotidiani sulla devastazione che causava, e molte persone si aspettavamo che i pedaggi alla morte sarebbero aumentati. Per i 37 milioni di persone che in tutto il mondo vivono con l’AIDS oggi, però, la malattia è sia curabile che prevenibile. Grazie ad uno sforzo globale concertato per migliorare l’accesso ai farmaci anti-retro-virali abbiamo svoltato nella lotta contro questa terribile malattia.
    UNAIDS afferma che il 41% di tutte le persone che sono HIV positivi, sono ora in trattamento, quasi il doppio della percentuale del 2010. Si rilevano 2 milioni di nuove infezioni da HIV in tutto il mondo nel 2014-15, il numero più basso dal 2000. Anche il numero dei morti sta scendendo, da un massimo di 2 milioni nei primi anni 2000 a 1,2 milioni di quest’anno. L’obiettivo di UNAIDS è quello di porre fine all’epidemia entro il 2030. Ci vorranno più soldi, un maggiore sostegno politico e più lavoro. Ma quello che abbiamo visto quest’anno è che la possibilità di una generazione priva di HIV è ormai in vista.

    6) Abbiamo dimezzato il tasso di mortalità della malaria
    La malaria è uno dei più grandi assassini dell’umanità, responsabile di più morti di quelli causati da tutti gli incidenti stradali in tutto il mondo. Negli ultimi dieci anni, però, abbiamo preso finalmente sul serio la lotta contro la malattia. Questo è grazie a tre interventi chiave per il controllo della malaria chia: zanzariere trattate con insetticida, trattamento degli ambienti interni con insetticidi e la terapia combinata a base di artemisinina. Dal 2000, per esempio, circa 1 miliardo di zanzariere trattate con insetticida sono state distribuite in Africa sub-sahariana.
    I tassi di mortalità sono diminuiti del 85% nel sud-est asiatico, del 72% nelle Americhe, del 65% nel Pacifico, e del 64% in Medio Oriente. Mentre l’Africa continua a pagare il prezzo più alto alla malaria, nel corso degli ultimi 15 anni, i tassi di mortalità sono diminuiti del 66% tra tutti i gruppi di età, e del 71% tra i bambini sotto i cinque anni, una popolazione particolarmente sensibili alla malattia. A livello globale, il numero dei decessi per malaria è sceso da un valore stimato 839.000 nel 2000 a 438.000 nel 2015. Ciò significa che abbiamo salvato circa 6,2 milioni di persone dalla malaria negli ultimi 15 anni  – un risultato straordinario.

    7) La poliomielite sta per essere debellata per sempre.
    Un quarto di secolo fa, un certo numero di organizzazioni sanitarie internazionali si sono impegnate nella missione di debellare la polio in tutto il mondo. Con 350.000 bambini colpiti e oltre 1.000 paralizzati ogni giorno, sembrava un obiettivo impossibile. Da allora, sono stati investiti più di 9.000.000.000 di dollari, e più di 2,5 miliardi di bambini in tutto il mondo hanno ricevuto le vaccinazioni. Di conseguenza, il numero di casi di polio è stato ridotto del 99% e nel dicembre di quest’anno, l’Organizzazione mondiale della sanità ha annunciato che la polio non è più endemica in Nigeria, aprendo la strada per farla diventare l’ultima nazione africana da dichiarare ufficialmente libera dalla polio entro il 2017. Questo lascia solo due paesi con casi di polio endemici – Pakistan e Afghanistan. Se, come i professionisti della salute prevedono, si riuscirà a eliminare i 334 casi che ancora rimangono, una malattia che una volta ha ucciso e mutilato i bambini a decine di migliaia si unirà il vaiolo e il Verme della Guinea come piaghe consegnata alla storia.

    8) Meno fame quest’anno rispetto al passato.
    Dei 7,3 miliardi di persone sul pianeta, si stima che 805 milioni – o uno su nove – soffriva di fame cronica tra il 2012 e il 2014. Tuttavia, tale numero è sceso di circa 200 milioni da un quarto di secolo fa. Questo è abbastanza impressionante, soprattutto se si considera che la popolazione mondiale è cresciuta di 1,9 miliardi di persone durante lo stesso periodo. E il tasso di fame è anche in declino. Nel 1990, uno degli obiettivi che ci siamo posti come specie è stato quello di dimezzare il tasso di fame. Oggi, 72 dei 129 paesi in via di sviluppo si sono accordati su questo obiettivo. Globalmente solo il 12,9% della popolazione in paesi in via di sviluppo soffrono oggi la fame, rispetto al 23,3% di un quarto di secolo fa.

    9) Più persone hanno acqua potabile.
    Uno degli obiettivi meno considerato tra le storie di successo del 2015 è invece uno di quelli più importanti. Quest’anno, il numero di persone senza accesso all’acqua potabile è sceso sotto i 700 milioni per la prima volta nella storia. Ciò significa che più di 6,6 miliardi di persone, ovvero il 91% della popolazione mondiale utilizza ora una migliore fonte di acqua potabile, dal 76% nel 1990. Nel 2015 solo tre paesi – Angola, Guinea Equatoriale e Papua Nuova Guinea – hanno una fornitura di acqua pulita inferiore al 50%, rispetto ai 23 paesi nel 1990. Solo nell’Africa sub-sahariana, 427 milioni di persone hanno avuto accesso all’acqua potabile, una media di 47.000 persone al giorno, tutti i giorni, negli ultimi 25 anni.

    10) La mortalità infantile è in diminuzione per il 43° anno di fila.
    Il tasso di mortalità, per i bambini sotto i cinque anni, è diminuito in quasi ogni paese della terra. Questo grazie ai progressi nella lotta contro le malattie come la malaria e la tubercolosi, agli integratori di vitamina A, ai nuovi farmaci contro l’HIV / AIDS e ad un migliore trattamento contro la diarrea e la polmonite. Ciò significa che nel 2015, per la prima volta in assoluto, il tasso di mortalità infantile globale (definito come la mortalità infantile sotto i 5 anni) è sceso al di sotto della soglia dei 6 milioni. Negli ultimi 25 anni, circa un terzo dei paesi del mondo – 62 in tutto – ha ridotto la mortalità sotto i cinque anni di due terzi, mentre altri 74 di almeno la metà. E il progresso è venuto da alcuni dei paesi più colpiti al mondo; 10 dei 12 paesi a più basso reddito che hanno ridotto i tassi di mortalità sotto i cinque anni, di almeno due terzi, sono in Africa.
    Ciò significa che si sono salvati circa 19.000 in più al giorno, nel 2015, rispetto al 1990, anno di riferimento per misurare i progressi. Solo dal 2000, abbiamo salvato la vita di 48 milioni di bambini. Questo numero è superiore a quello dei morti causati dalle guerre e dalle violenze durante lo stesso periodo. Significa che meno genitori, hanno dovuto seppellire i loro figli quest’anno che in qualsiasi altro periodo della storia umana. E’una delle notizie più sorprendenti del nostro tempo, e tuttavia il suo peso sui media è di 100 volte inferiore rispetto alle storie sul terrorismo.

    11) Abbiamo raggiunto un punto di svolta nella lotta contro il cambiamento climatico.
    Tre grandi cose sono accadute per il cambiamento della politica sul clima nel 2015. La prima è che il 2015 sembra destinato ad essere l’anno più caldo mai registrato. Questo significa che le temperature sono salito di 1 ° C a partire dalla rivoluzione industriale. Il periodo di cinque anni tra il 2011 e il 2015 è anche il più caldo mai registrato; le giustificazioni sul cambiamento climatico addotte dai negazionisti stanno diventando sempre più ridicole. Abbiamo svolato; chi nega l’influenza delle emissioni sul clima non viene più preso sul serio. Il mondo è andato avanti, e i contrari sono diventati reliquie irrilevanti.
    La seconda cosa è che, grazie al forte calo del consumo di carbone in Cina e un ad un continuo aumento delle energie rinnovabili in tutto il mondo, il 2015 sembra destinato ad essere il primo anno in assoluto durante il quale le emissioni di CO2 sono diminuite mentre l’economia mondiale in generale è cresciuta. Se la transizione energetica sia permanente, non è ancora chiaro, ma i segnali sono incoraggianti. Nei paesi sviluppati i segni sono evidenti. Hanno raggiunto un picco nel consumo complessivo di combustibili fossili e ora sta iniziando la transizione verso forme più pulite di energia.

    Il terzo, e più importante evento è stata la firma dell’accordo di Parigi. Il punto centrale è il cosiddetto ‘obiettivo a lungo termine’ che impegna quasi 200 paesi a mantenere la temperatura media globale al di sotto dei 2 ° C, rispetto ai livelli pre-industriali, e di “proseguire gli sforzi per limitare l’aumento della temperatura a non più di 1,5 ° C” . L’obiettivo a lungo termine afferma inoltre che nella seconda metà di questo secolo, il mondo dovrebbe arrivare a un punto in cui le emissioni nette di gas serra dovrebbero essere pari a zero.
    Certo, non è abbastanza. C’è una lunga strada da percorrere prima che gli impegni corrispondano a tale obiettivo. Ma è più di quanto ci si potesse aspettare, e un trionfo per la diplomazia. Il più grande raduno di leader mondiali mai avvenuto, il problema più grande che l’umanità abbia mai affrontato, si è concluso con la stesura di un documento giuridicamente vincolante accettato da tutti i paesi. Jonathan Chait riassume perfettamente:
    Le forze tecnologiche e politiche sono finalmente in atto per realizzare il primo patto globale atto a limitare le emissioni di gas serra. Il mondo sta improvvisamente rispondendo all’emergenza clima con – per gli standard del suo comportamento precedente – velocità sorprendente. La partita non è finita. E i bravi ragazzi stanno iniziando a vincere.
    Il mondo non è un posto perfetto. Molte cose sono andate male per l’umanità di quest’anno. Abbiamo ancora grossi problemi, in particolare intorno al degrado ambientale, le migrazioni internazionali, l’estremismo politico e la disuguaglianza economica. Queste sono le grandi sfide del nostro tempo. Ed è anche vero che l’ondata di progresso non ha raggiunto tutti. Troppe persone vivono ancora in condizioni di povertà estrema, 6 milioni di bambini muoiono ancora ogni anno di malattie curabili e centinaia di milioni di persone non possono esercitare le libertà fondamentali. Ma, come uno dei miei preferiti di statistica dice Hans Rosling, “Devi essere in grado di contenere due idee in testa in una sola volta: il mondo sta migliorando e non è abbastanza buono!”
    E ‘facile essere cinici dicendo che nulla sta migliorando nel nostro mondo. L’evidenza empirica contraddice questo punto di vista; guardando a ciò che abbiamo già raggiunto come specie, dobbiamo quandare al futuro con fiducia. Stiamo costantemente sottovalutando le capacità dell’umanità di lavorare in modo cooperativo, affrontare nuove sfide e ampliare la prosperità globale e le libertà fondamentali. Ora abbiamo una finestra di opportunità per creare la più grande era di progresso nella storia umana. Non sarà facile, così come non lo è stato in passato, e ci vorrà coraggio, sacrificio e una forte leadership. Ma i potenziali sviluppi sono impressionanti. E riusciremo a farcela, possiamo sperare in un periodo d’oro per il genere umano e per la terra su cui viviamo.

    Tradotto ed adattato da
    https://medium.com/future-crunch/11-reasons-why-2015-was-a-great-year-for-humanity-70db584db748#.fp21siye4

  • Che cos’è l’Ur-Fascismo?

    Che cos’è l’Ur-Fascismo?

     

     

    Spesso ci troviamo di fronte a personalità politiche, a singole proposte o a interi programmi che suscitano in noi accuse di “fascismo”, pur sapendo che nulla esse hanno a che fare con il fascismo storicamente inteso.

    E non solo il “fascismo” si riscontra in occasioni e in persone temporalmente distanti dal fu Partito Nazionale Fascista: nel corso della storia i detrattori ne hanno ritrovato le caratteristiche in ambiti geograficamente disconnessi.

    Scrive Umberto Eco nel suo saggio Il fascismo eterno (pubblicato come “Totalitarismo fuzzy e ur-fascismo” su La Rivista dei Libri, n°7/8 Luglio/agosto 1995):

    Perché un’espressione come “Fascist pig” veniva usata dai radicali americani persino per indicare un poliziotto che non approvava quello che fumavano? Perché non dicevano: “Porco Caugolard”, “Porco falangista”, “Porco ustascia”, “Porco Quisling”, “Porco Ante Pavelic”, “Porco nazista”?

    Eco parte da questa constatazione per tracciare una distinzione tra i tre principali regimi del Novecento: mentre il nazismo e lo stalinismo furono veri e propri totalitarismi, lo stesso non si può dire del fascismo italiano, il quale rimase una “semplice” dittatura.

    Un regime totalitario, per quanto liberticida e violento sia, è estremamente coerente nei confronti dell’ideologia da cui scaturisce e all’infuori della quale non è dato parlare. Non esiste pensiero fuori dall’unica, vera, filosofia che scorre in ogni angolo del corpo sociale.

    Il nazismo aveva un cuore anticristiano e neopagano, e un testo sacro completo, il Mein Kampf; Stalin fondò il suo regime sulla versione ufficiale del marxismo sovietico, il Diamat, essenzialmente materialista e ateo. Al contrario, il fascismo fu un regime estremamente incoerente e ideologicamente sgangherato, spiega Eco:

    Mussolini non aveva nessuna filosofia: aveva solo una retorica … fu il fascismo italiano a convincere molti leader liberali europei a un’alternativa moderatamente rivoluzionaria alla minaccia comunista … la parola “fascismo” divenne una sineddoche, una pars pro toto per movimenti totalitari diversi … Il fascismo era un totalitarismo fuzzy, un alveare di contraddizioni … nacque proclamando il suo nuovo ordine rivoluzionario ma era finanziato dai proprietari terrieri più conservatori.

    Inoltre, da convinto anticlericale qual era, in quegli anni Mussolini firmò i Patti Lateranensi e non disdegnava di farsi chiamare “l’uomo della Provvidenza”.

    Molti di quelli che diverranno intellettuali del Partito Comunista, dopo l’esperienza nelle fila dei partigiani per la liberazione, negli anni Trenta avevano trovato spazio nei Gruppi Universitari Fascisti. E questo non per contiguità ideologica o per tolleranza dei fascisti verso idee filosofiche o artistiche diverse (Eco cita l’esempio degli ermetici), quanto per l’incapacità dell’apparato intellettuale fascista di controllare e quindi censurare sul nascere fermenti ideologici differenti. La dissidenza veniva violentemente perseguita solo quando diventava socialmente pericolosa per il regime: da qui lo squadrismo con le sue aggressioni a sfondo politico, gli assassinii di Matteotti e dei fratelli Rosselli, il confino ad mortem di Gramsci, la soppressione della libertà di stampa, di associazione, lo smantellamento dei sindacati, il controllo governativo dei mass media e dell’attività legislativa del parlamento fino all’emanazione delle leggi razziali fasciste nell’agosto del 1938.

    In sintesi, «Ci fu un solo nazismo … al contrario, si può giocare al fascismo in molti modi». Il fascismo è una di quelle nozioni che, usando Wittgenstein, indica una serie di attività accomunate da qualche “somiglianza di famiglia”. È quello che accade alla nozione di gioco. Tra le configurazioni possibili, sopravvive una «lista di caratteristiche tipiche» di quello che Eco chiama «Ur-Fascismo o “fascismo eterno”».

    1. Tradizionalismo o culto della tradizione: il fascismo utilizza un approccio sincretistico alla cultura che mette sullo stesso piano conoscenze, anche contraddittorie tra loro, che alludono a una qualche verità primitiva. Il tradizionalismo impedisce così qualsiasi avanzamento del sapere.

    2. Anti-modernismo: l’ideologia del sangue e della terra (Blut und Boden) condanna la Ragione celebrata invece dall’illuminismo.

    3. Irrazionalismo: l’Ur-Fascismo ammira l’azione per l’azione, senza riflessione alcuna. La cultura e il mondo intellettuale sono perciò visti con sospetto (ricordiamo il tradizionalismo).

    4. Anti-criticismo: un approccio sincretistico, teso a racchiudere nello stesso concetto di verità immagini eterogenee tra loro, non tollera le distinzioni operate naturalmente dallo spirito critico. «Per l’Ur-Fascismo, il disaccordo è tradimento».

    5. Le distinzioni operate dallo spirito critico sulla realtà danno forma al diverso. Il fascismo eterno, opponendosi al criticismo, è quindi essenzialmente xenofobo e razzista.

    6. Timore per la pressione delle classi subalterne: l’Ur-Fascismo si appella alla frustrazione della classe media e fa leva sul suo horror proletariati.

    7. Complottismo od ossessione del complotto: intimamente legato alla xenofobia (paura del diverso), storicamente si traduce nel nazionalismo dei regimi fascisti. L’ossessione del complotto come strumento di governo individua anche nemici interni allo stato (gli ebrei ne sono il modello).

    8. Incapacità di valutare la forza del nemico: la psicologia fascista alterna senso di umiliazione nei confronti del nemico, troppo forte, alla convinzione della propria superiorità su un nemico in realtà infinitamente più debole. «I fascismi sono condannati a perdere le loro guerre».

    9. Guerra permanente e “vita per la lotta” da cui dedurre una soluzione finale che porti a una pacificata Età dell’Oro, concetto che contravviene però, alla vita come eterna guerra.

    10. Elitismo: l’Ur-Fascismo disprezza i deboli. Storicamente però, dovendo attirare le masse popolare, l’elitismo si è manifestato nel provincialismo dei regimi fascisti.

    11. Eroismo e culto per la morte. Troppo bonario per sognare di morire e per vivere continuamente di lotta, il fascista nel suo quotidiano ripiega su un più semplice

    12. Machismo. Che poi indica una ben più banale invidia penis.

    13. Populismo “qualitativo”: secondo Eco, il fascismo utilizza il concetto di popolo come «entità monolitica che esprime la volontà comune (e non “generale”, aggiungiamo noi)». Da questo populismo comprendiamo l’anti-parlamentarismo e il disinteresse verso la maggioranza. «Nel nostro futuro si profila un populismo qualitativo TV o Internet, … l’Ur-Fascismo deve opporsi ai “putridi” governi parlamentari».

    14. Neolinguismo: per neolingua si intendono alcuni impieghi strumentali del linguaggio e dello studio, impiegati a sostegno del potere costituito. L’Ur-Fascismo promuove l’ignoranza e disprezza il ragionamento, caratteristiche riscontrabili tanto nei talk-show televisivi berlusconiani quanto nel «lessico semplice ed elementare dei testi scolastici nazisti e fascisti».

    La lista qui sopra dà corpo storico alla tesi di Eco secondo cui il fascismo non è un regime totalitaristico, poiché impiega queste caratteristiche senza rispettare uno schema ideologico coerente, disponendone con lo scopo del rafforzamento del proprio potere sull’ordine sociale . Può aiutarci a escludere politici vecchi e nuovi che si ripresentano nella corsa al potere. Con l’augurio di un buon voto.

  • La lezione di Pareto. La politica senza élite non è vera politica

    La lezione di Pareto. La politica senza élite non è vera politica

    L’ingegnere-economista ci ha insegnato che l’essenza della democrazia (assieme al popolo) è la classe dirigente. Più che mai assente oggi in Italia…

    E se il difetto fosse nel manico? Se il problema fosse nella democrazia che non seleziona e non riconosce classi dirigenti ma solo demagoghi, istrioni o emissari dei «poteri forti»? Da anni il dibattito politico è inchiodato all’alternativa tra populismo e democrazia dei partiti, tra presidenzialismo e parlamentarismo.

    Il populismo è una risposta, a volte rozza, spesso semplificatrice, al deficit di sovranità, di politica e di democrazia delle società globali sempre più dominate dalle oligarchie. Ma il populismo, come le oligarchie di partito o d’affari, lascia degenerare un processo necessario a ogni società: la formazione e la circolazione delle élite. S’interrompe la selezione delle classi dirigenti, tutto è affidato agli umori della piazza, al fascino seducente dei leader o all’opposto agli interessi forti tutelati dalle oligarchie, siano esse finanziarie, tecniche o partitocratiche. Da decenni si è spezzato il circuito rigenerativo delle élite.

    L’Italia non forma da anni classi dirigenti e negli ultimi tempi, per restare alla distinzione di Gramsci, non ha più nemmeno una vera e propria classe dominante. Chi domina, bene o male, si occupa dei dominati, li opprime ma li comanda. Da alcuni anni, invece, la classe dominante si è fatta classe sovrastante; cioè vive al di sopra e al di fuori del Paese, non si assume precise responsabilità di comando, nemmeno nel segno della dominazione. Si estranea, non coopta nuove energie, preferisce diminuire i rapporti con la plebe, lascia che un ceto medio sempre più vasto si proletarizzi e sprofondi nel disagio del benessere calante e si ritira in un mondo inaccessibile. La degenerazione è dunque doppia: da classe dirigente a classe dominante e da questa a classe sovrastante. Chi si occupa delle sorti del Paese, quali sono i luoghi in cui si formano le classi dirigenti e si premiano le eccellenze? Processi sempre più anonimi, impersonali, poteri opachi e remoti, flussi e logaritmi. Né si delinea alcun blocco storico e sociale in ascesa. Il flusso vitale è interrotto. Non c’è né il lento e continuo mutarsi senza dissolversi della classe dirigente di cui parlava il conservatore Gaetano Mosca né la lotta tra due élite concorrenti di cui parlava il più audace Vilfredo Pareto (1848-1923). Mosca, Pareto e Michels sono noti come machiavellans . Al pari di Machiavelli si attengono al realismo, ritengono invariabile la natura umana sotto l’egida della necessità, della virtù e della fortuna; si governa con la forza e con l’astuzia. Per loro anche le democrazie sono guidate da minoranze attive, non è mai esistito un governo del popolo; la sovranità è sempre nelle mani di pochi, la storia è un cimitero di aristocrazie e la lotta politica è una competizione tra élite in ascesa e in declino. Una società è sana e vitale se riconosce e promuove le élite al potere e la loro circolazione.

    Degli autori citati, Pareto ha lo sguardo più ampio e più lungo, da economista e da sociologo, oltre che da osservatore della storia e della politica, dei caratteri e dei personaggi. Cent’anni fa scrisse la sua opera capitale, il Trattato di sociologia , che però vide la luce a guerra inoltrata, quando alcune delle sue previsioni si stavano già avverando: in Russia, in Italia e nel resto d’Europa. La sua lezione sull’impossibile autodirezione delle masse ebbe allievi diversi come Lenin e Mussolini, ma anche Gramsci e Gobetti. Si racconta che i due leader si siano sfiorati solo una volta nella vita, a Losanna, seguendo le lezioni di Pareto. Partendo da un giovanile socialismo e poi un disilluso liberismo, Pareto si accorse che le ideologie erano gusci vuoti senza due ingredienti essenziali: la forza e il mito. Qui Pareto combacia con un altro filosofo che accomunò Mussolini e Lenin, ma anche Gramsci e Gobetti: Sorel.

    Pareto e Sorel, due ingegneri convertiti alla storia delle idee. Il mito di Sorel è lo sciopero generale, il mito di Pareto è la nazione. Pareto fu definito il Karl Marx del fascismo; incoraggiò Mussolini al tempo della Marcia su Roma («Ora o mai più»), scrisse sulla rivista mussoliniana Gerarchia e rappresentò l’Italia fascista alla Società delle Nazioni, ma morì troppo presto – il 1923 – per vedere il seguito. Cent’anni fa polemizzò con Maffeo Pantaleoni sugli esiti del conflitto mondiale: Pareto sosteneva che avrebbe favorito rivoluzioni socialiste, Pantaleoni che avrebbe rilanciato lo spirito patriottico. Ebbero ragioni entrambi perché sorsero il bolscevismo e il fascismo, dopo il biennio rosso. Pareto colse nella storia residui e derivazioni. I primi sono fattori non logici ma persistenti, le seconde sono invece la loro rielaborazione logica. Tra i residui spiccano due impulsi opposti: l’istinto delle combinazioni che produce dinamismo e mix innovativi e la persistenza degli aggregati che induce a permanere negli assetti precedenti. Ambedue le spinte sono necessarie in ogni società per garantire equilibrio tra continuità e novità ma oggi ci sembrano entrambi carenti. Deficit di tradizione e di innovazione. Ci sono anche i residui sessuali sui quali si erige il mito virtuista col suo puritanesimo sessuofobo, che Pareto sferza con sagacia.

    Dietro ogni teoria c’è la lotta per la conquista del potere: l’uguaglianza, ad esempio, è un mito che serve prima per rovesciare le classi superiori, poi per affiancarle e infine sottometterle alle classi in ascesa, istituendo così nuove diseguaglianze. La storia e la società sono mosse dal conflitto incessante tra élite che detengono il potere e le altre che vogliono subentrarvi. Anche la democrazia è succube di questa tensione e non c’è suffragio universale che non celi un passaggio di potere da una minoranza a un’altra. La stagnazione uccide i regimi almeno quanto il vorticoso turnover delle élite. Ma è impensabile che una società possa sopravvivere senza classi dirigenti. Da qui la necessità di ripensare alle aristocrazie come a una priorità assoluta per una società che procede con piloti automatici, rotte prestabilite dalla tecno-economia e leader politici ridotti a livello di guitti e animatori, steward e hostess. Si tratta di ripristinare i circuiti in cui si formano le élite – scuole, laboratori, palestre – e i luoghi, il clima, la cultura in cui si riconoscono meriti, qualità e capacità.

    Nella politica come nella società urge ripartire dalle classi dirigenti. Non c’è capo, demos o sistema di leggi che possa compensare la mancanza di élite alla guida del Paese. Pareto lo aveva capito già prima dell’avvento della democrazia globale di massa. Anche una democrazia senza élite è decapitata e destinata a morire, al pari di una democrazia senza popolo.

  • Più di cento anni fa… un visionario o un veggente?

    Più di cento anni fa… un visionario o un veggente?

    “L’uomo del futuro avrà solo un modesto interesse di conoscere come sono vissuti gli uomini del passato, ma avrà bensì una continua smania di sapere come vivono e cosa fanno in ogni momento gli altri uomini del suo tempo in tutto il pianeta. E attraverso l’uso dell’elettronica avrà i mezzi a disposizione per essere continuamente informato in ogni istante”.

     Filippo Tommaso Marinetti.

  • LA TEORIA DELLE FINESTRE ROTTE

    LA TEORIA DELLE FINESTRE ROTTE

    “Teoria delle finestre rotte”

    Servizio Pubblico – Gianrico Carofiglio illustra la “Teoria delle finestre rotte” from Roma fa schifo on Vimeo.

    Nel 1969, presso l’Università di Stanford (USA), il professor Philip Zimbardo ha condotto un esperimento di psicologia sociale. Lasciò due auto abbandonata in strada, due automobili identiche, la stessa marca, modello e colore. Una l’ ha lasciata nel Bronx, quindi una zona povera e conflittuale di New York ; l’altra a Palo Alto, una zona ricca e tranquilla della California. Due identiche auto abbandonate, due quartieri con popolazioni molto diverse e un team di specialisti in psicologia sociale, a studiare il comportamento delle persone in ciascun sito.

    Si è scoperto che l’automobile abbandonata nel Bronx ha cominciato ad essere smantellato in poche ore. Ha perso le ruote, il motore, specchi, la radio, ecc. Tutti i materiali che potevano essere utilizzati sono stati presi, e quelli non utilizzabili sono stati distrutti. Dall’altra parte , l’automobile abbandonata a Palo Alto, è rimasta intatta.

    È comune attribuire le cause del crimine alla povertà. Attribuzione nella quale si trovano d’accordo le ideologie più conservatrici (destra e sinistra). Tuttavia, l’esperimento in questione non finì lì: quando la vettura abbandonata nel Bronx fu demolita e quella a Palo Alto dopo una settimana era ancora illesa, i ricercatori decisero di rompere un vetro della vettura a Palo Alto, California. Il risultato fu che scoppiò lo stesso processo, come nel Bronx di New York : furto, violenza e vandalismo ridussero il veicolo nello stesso stato come era accaduto nel Bronx.

    Perchè il vetro rotto in una macchina abbandonata in un quartiere presumibilmente sicuro è in grado di provocare un processo criminale?

    Non è la povertà, ovviamente ma qualcosa che ha a che fare con la psicologia, col comportamento umano e con le relazioni sociali.

    Un vetro rotto in un’auto abbandonata trasmette un senso di deterioramento, di disinteresse, di non curanza, sensazioni di rottura dei codici di convivenza, di assenza di norme, di regole, che tutto è inutile. Ogni nuovo attacco subito dall’auto ribadisce e moltiplicare quell’idea, fino all’escalation di atti, sempre peggiori, incontrollabili, col risultato finale di una violenza irrazionale.

    In esperimenti successivi James q. Wilson e George Kelling hanno sviluppato la teoria delle finestre rotte, con la stessa conclusione da un punto di vista criminologico, che la criminalità è più alta nelle aree dove l’incuria, la sporcizia, il disordine e l’abuso sono più alti.

    Se si rompe un vetro in una finestra di un edificio e non viene riparato, saranno presto rotti tutti gli altri. Se una comunità presenta segni di deterioramento e questo è qualcosa che sembra non interessare  a nessuno, allora lì si genererà la criminalità. Se sono tollerati piccoli reati come parcheggio in luogo vietato, superamento del limite di velocità o passare col semaforo rosso, se questi piccoli “difetti” o errori non sono puniti, si svilupperanno “difetti maggiori” e poi i crimini più gravi.

    Se parchi e altri spazi pubblici sono gradualmente danneggiati e nessuno interviene, questi luoghi saranno abbandonati dalla maggior parte delle persone (che smettono di uscire dalle loro case per paura di bande) e questi stessi spazi lasciati dalla comunità, saranno progressivamente occupato dai criminali.

    Gli studiosi hanno risposto in una forma più forte ancora, dichiarando che l’incuria ed il disordine accrescono molti mali sociali e contribuiscono a far degenerare l’ambiente.

    A casa, tanto per fare un esempio, se il capofamiglia lascia degradare progressivamente la  sua casa, come la mancanza di tinteggiature alle pareti che stanno in pessime condizioni, cattive abitudini di pulizia, proliferazioni di cattive abitudine alimentari, utilizzo di parolacce, mancanza di rispetto tra i membri della famiglia, ecc, ecc, ecc. poi, anche gradualmente,  cadranno anche la qualità dei rapporti interpersonali tra i membri della famiglia ed inizieranno a crearsi cattivi rapporti con la società in generale. Forse alcuni, perfino un giorno, entreranno in carcere.

    Questa teoria delle finestre rotte può essere un’ipotesi valida a comprendere la degradazione della società e la mancanza di attaccamento ai valori universali, la mancanza di rispetto per l’altro e alle autorità (estorsione e le tangenti) , la degenerazione della società e la corruzioni  a tutti i livelli. La mancanza di istruzione e di formazione della cultura sociale, la mancanza di opportunità, generano un paese con finestre rotte, con tante finestre rotte e nessuno sembra disposto a ripararle.

    La “teoria delle finestre rotte” è stata applicata per la prima volta alla metà degli anni ottanta nella metropolitana di New York City, che era divenuto il punto più pericoloso della città. Si cominciò combattendo le piccole trasgressioni: graffiti che deterioravano il posto, lo sporco dalle stazioni, ubriachezza tra il pubblico, evasione del pagamento del biglietto, piccoli furti e disturbi. I risultati sono stati evidenti: a partire della correzione delle piccole trasgressioni si è riusciti a fare della Metro un luogo sicuro.

    Successivamente, nel 1994, Rudolph Giuliani, sindaco di New York, basandosi sulla teoria delle finestre rotte e l’esperienza della metropolitana, ha promosso una politica di tolleranza zero. La strategia era quella di creare comunità pulite ed ordinate, non permettendo violazioni alle leggi e agli standard della convivenza sociale e civile. Il risultato pratico è stato un enorme abbattimento di tutti i tassi di criminalità a New York City.

    La frase “tolleranza zero” suona come una sorta di soluzione autoritaria e repressiva, ma il concetto principale è più prevenzione e promozione di condizioni sociali di sicurezza. Non è questione di  violenza ai trasgressori, né manifestazione di arroganza da parte della polizia. Infatti, anche in materia di abuso di autorità, dovrebbe valere la tolleranza zero. Non è tolleranza zero nei confronti della persona cher commette il reato, ma è tolleranza zero di fronte al reato stesso. L’idea è di creare delle comunità pulite, ordinate, rispettose della legge e delle regolei che sono alla base della convivenza  umana in modo civile e socialmente accettabile.

    È bene di tornare a leggere questa teoria e di diffonderla .

    La soluzione a questo problema io non c’è l’ho, caro lettore, ma io ho iniziato a riparare le finestre della mia casa, sto cercando di migliorare le abitudini alimentari della mia famiglia, ho chiesto a tutti i membri della famiglia di evitare di dire parolacce, sopratutto davanti ai nostri figli, inoltre abbiamo deciso di non mentire, di evitare persino le piccole bugie, perché non c’è nessuna piccole bugie,la bugia non è grande o piccola, UNA BUGIA è UNA BUGIA E BASTA

    Abbiamo concordato di accettare le conseguenze delle nostre azioni con coraggio e responsabilità, ma soprattutto per dare una buona dose di educazione ai nostri figli.

    Con questo ho la speranza di cominciare a cambiare in qualcosa che prima sbagliavo. Il mio sogno è che i miei ripetano tutto questo in modo che un domani i figli dei miei figli o i loro nipoti possano vedere un nuovo mondo, UN MONDO SENZA FINESTRE ROTTE.

    SE SEI D’ACCORDO CON LA TEORIA DELLE FINESTRE ROTTE, FAI SEMPLICEMENTE GIRARE QUESTA E-MAIL IN MODO CHE OGNI GIORNO SIANO DI PIU’ QUELLI CHE VOGLIONO DARE UNA MANO AL MIGLIORAMENTO DELLA NOSTRA SOCIETA’.